Corte di Cassazione, sez. Lavoro, n. 32381 - Presidente Della Torre – Relatore De Gregorio
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, 11 dicembre 2019, n. 32381
Presidente Della Torre ? Relatore De Gregorio
FattoDiritto
LA CORTE, visti gli atti e sentito il consigliere relatore, rileva che:
come si evince dallo storico di lite della sentenza qui impugnata, con ricorso
al Tribunale di Siracusa in data 23 ottobre 2004 C.G. , premesso di lavorare da
oltre 25 anni presso la Banca di Credito Popolare di Siracusa - Banca Antoniana
Popolare Veneta con la qualifica di vice capufficio e con le mansioni di
cassiere terminalista, lamentava di essere stato da diverso tempo oggetto di un
comportamento fortemente vessatorio da parte di dirigenti e di qualche collega
della Banca, in particolare per essere stato scavalcato nella promozione a
capoufficio da colleghi molto più giovani di età e con minore anzianità di
servizio nonché con minore professionalità, nell?essere stato vittima di
continui distacchi e/o brevi trasferimenti e missioni senza alcuna causa ragione
o motivo di natura organizzativa, nell?avere subito vere aggressioni
psicologiche consistite in inutili e futili contestazioni disciplinari, rimaste
però inattuate. Tanto premesso, assumeva che detti comportamenti gli avevano
procurato una malattia psicofisica concretizzatasi in ansia, insonnia e disturbi
depressivi, per cui chiedeva la condanna della società convenuta al pagamento
della somma di Euro 60.000 a titolo di risarcimento dei danni fisici, psichici e
morali subiti. Instauratosi il contraddittorio con la costituzione della società
convenuta, che resisteva alle pretese avversarie, il giudice adito, previo
espletamento di prova testimoniale, con sentenza del 12 febbraio 2007 rigettava
la domanda. Detta pronuncia veniva quindi appellata dal C. con ricorso del 3
maggio 2007, cui resisteva la Banca MONTE dei PASCHI di Siena S.p.a. (che aveva
incorporato la Banca Antonveneta), la quale proponeva, a sua volta, appello
incidentale avverso la dichiarata compensazione delle spese relative al primo
grado del giudizio;
la Corte di Appello di Catania con sentenza in data 20 novembre - 10 dicembre
2014 rigettava entrambe le anzidette impugnazioni, compensando altresì le
relative spese;
tale pronuncia è stata quindi impugnata dal C. mediante ricorso per cassazione
notificato il 4 giugno 2015, affidato ad un solo articolato motivo, cui ha
resistito la - Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.A. mediante controricorso del
9 - 10 luglio 2015, in seguito illustrato da memoria.
CONSIDERATO che:
il ricorrente ha denunciato, ai sensi dell?art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione
della L. n. 104 del 1992, art. 33, n. 5 e successive modifiche ed integrazioni,
nonché degli artt. 2697, 2727 e 2087 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c.;
al riguardo, il C. ha evidenziato che sin dall?atto introduttivo del giudizio di
primo grado aveva rappresentato di essere genitore di figlio affetto da sindrome
di down, per cui aveva allegato opportuna documentazione. La circostanza era
rimasta incontestata ed anzi pure riconosciuta nella memoria di costituzione in
appello per la Banca Monte dei Paschi di Siena. In proposito il C. aveva
lamentato il profluvio dimissioni e di trasferte, con le quali era stato
aggredito dalla Banca datrice di lavoro soprattutto durante il periodo corrente
dal dicembre 2001 sino a luglio 2002, a ridosso cioè della fusione per
incorporazione della stessa banca con la Banca Antoniana Veneta.
Ad una prima lettura del succitato art. 33, comma 5, la norma sembrava riferirsi
solo al caso di veri e propri trasferimenti, ma in realtà secondo il ricorrente
la stessa attribuiva al lavoratore fornitore di assistenza ad un parente affetto
da handicap la facoltà di scelta nella sede più vicina al proprio domicilio,
così che doveva ravvisarsi il diritto del lavoratore versante in questa
situazione negativa a scegliere e quindi a mantenere una sede di lavoro più
vicina, tale da consentirgli di esercitare senza deminutio da parte datoriale il
ruolo assistenziale garantito dalla legge. Sosteneva, quindi, il ricorrente che
nel diritto scegliere una sede vicina al proprio domicilio è contenuto anche
quello a mantenerla senza elisioni neanche temporanee e a non essere allontanato
da essa neanche per brevi periodi in quanto luogo di lavoro più vicino al
proprio domicilio. La ratio della norma, infatti, è quella di non allontanare
dalla sede di lavoro più vicina al domicilio del familiare ammalato i genitori
onerati dal delicato ruolo assistenziale tutelato dalla legge, non avendo perciò
rilievo se l?allontanamento avvenga per periodi più o meno brevi, per distanze
più o meno lunghe, poiché il diritto all?assistenza ex L. n. 104, viene comunque
leso dall?allontanamento anche per periodi più o meno brevi e con riferimento a
distanze più o meno ravvicinate. I maggiori tempi di percorrenza necessari per
raggiungere il nuovo luogo di lavoro e per rientrare da esso riducono infatti il
tempo libero dal lavoro da dedicare l?assistenza;
pertanto, ad avviso del ricorrente, la Corte di merito aveva violato l?anzidetto
art. 33, n. 5, laddove aveva affermato l?irrilevanza dei distacchi di breve
durata in un arco temporale limitato di sei mesi ed in località vicine;
parimenti, aveva errato la Corte distrettuale laddove aveva osservato che
l?assunto relativo alla carenza di motivi organizzativi sottostanti alle
lamentate trasferte non risultava provato, essendo l?affermazione rimasta priva
di dimostrazione. Infatti, nel caso di specie era pacifico ed incontestato il
titolo del dipendente a fruire della tutela assicurata dalla L. n. 104 del 1992.
Quindi, l?obbligo di legge, cui era tenuta la resistente, risultava chiaro e
dedotto in giudizio, nonché da parte datoriale ben conosciuto. Di conseguenza,
ai sensi dell?art. 2697 c.c., comma 2, spettava alla convenuta eccepire
l?inefficacia del titolo derivante al C. ai sensi del citato art. 33, ma parte
datoriale nulla aveva eccepito o chiesto di provare al riguardo, sicché non si
era reso neppure necessario operare il bilanciamento tra i contrapposti
interessi. Pertanto, la Corte d?Appello, invertendo illegittimamente l?onere
probatorio e pretermettendo dal suo ragionamento tutte le prove documentali
riprodotte con il ricorso, aveva violato non solo la previsione di cui al cit.
art. 2697, comma 2, ma anche gli artt. 115 e 116 c.c.. D?altro canto, la Corte
di merito non aveva considerato che, pur a voler escludere il carattere
vessatorio di ogni altro comportamento di parte datoriale, verso cui il C. aveva
espresso le sue doglianze, sei mesi continuativi di trasferte imposte in
località lontane dalla sede di lavoro ad un genitore con a carico un figlio
affetto da sindrome down in vista della fusione per incorporazione con Banca
Antonveneta erano certamente tali da concretizzare l?attacco ripetuto,
continuato, sistematico e duraturo richiesto da Cass. 6 marzo 2006 numero 4774 e
17 febbraio 2009 n. 3785, per poter configurare il mobbing lesivo, ai sensi e
per gli effetti dell?art. 2087 c.c., della salute del dipendente. Tale lesività
nella specie risultava ampiamente documentata, come da prodotta certificazione
medica. Il nesso di causalità tra la malattia e lo sballottamento reiterato con
trasferte e missioni, nonché con sottrazione, per i necessari tempi di aumentata
percorrenza, di parte del tempo da dedicare al figlio ammalato, era desumibile
da un?ammissione della resistente e da conseguente semplice presunzione ex art.
2727 c.c.. Infatti, nella memoria di costituzione in appello della Banca Monte
dei Paschi a pagina 6 era stata richiamata e riportata, integralmente, la
memoria di costituzione in primo grado della Banca Antonveneta, in cui
espressamente vi era stata menzione della grave malattia del figlio del C. . La
presunzione, poi, ex art. 2727 c.c., era data dalla ragionevole conseguenza che
un padre parzialmente deprivato del proprio diritto all?assistenza del figlio
malato venga a subire una grave sofferenza psicofisica, che inevitabilmente
sfoci in danno biologico, ampiamente documentato e ribadito nei precedenti gradi
del giudizio. Peraltro, l?appellante aveva anche chiesto puntuale visita medico
legale, che accertasse i danni subiti e il nesso di causalità degli stessi con
gli illegittimi comportamenti della Banca datrice di lavoro;
tanto premesso, il ricorso va disatteso alla stregua di quanto motivatamente
accertato dalla Corte di merito in relazione alla pretesa risarcitoria azionata
dal ricorrente, visto che, a prescindere dalla considerazione circa la breve
durata di distacchi effettuati in un arco temporale limitato di circa sei mesi
ed in località vicine, dislocate ad una distanza chilometrica oscillante
all?incirca tra i 20 e i 40 km rispetto alla sede di lavoro in Siracusa,
l?assunto relativo alla carenza dei motivi organizzativi sottostante a dette
trasferte era rimasto meramente labiale. L?istante non aveva offerto alcun
elemento obiettivo da cui poter ragionevolmente desumere l?intento emulativo
perseguito da parte datoriale, non avendo egli, non solo dimostrato, ma neppure
dedotto che il distacco subito non fosse funzionale alla sostituzione di unità
lavorative temporaneamente assenti o che riguardasse sempre e soltanto lui senza
alcuna rotazione tra i colleghi. Quanto, poi, al mancato avanzamento di
carriera, anche la doglianza sul punto risultava infondata, essendo pienamente
condivisibile l?affermazione del giudice di primo grado sul carattere vago e
generico della deduzione. Il lavoratore non aveva, invero, allegato in modo
circostanziato, nè tantomeno provato, che la promozione per mero decorso del
tempo costituiva per prassi aziendale una conseguenza pressoché automatica,
disancorata da valutazioni discrezionali, che, rientrando nel potere
organizzativo del datore, restavano sottratte al sindacato giudiziale. Parimenti
infondato era l?ultimo motivo di appello, mediante il quale era stata censurata
la sentenza gravata per non aver riconosciuto il carattere pretestuoso e
strumentale delle contestazioni disciplinari elevate. Infatti, dalle risultanze
istruttorie acquisite era emerso che tutti i rilievi disciplinari formalmente
contestati al dipendente erano sorretti da un obiettivo fondamento
giustificativo. In particolare, l?episodio dell?ammanco di un milione di lire
alla chiusura della cassa era stato dal lavoratore ammesso nella lettera di
giustificazioni del 21 maggio 2008, laddove lo stesso aveva dato atto di aver
provveduto al ripianamento con danaro proprio, sicché, ad avviso della Corte
catanese, la sanzione applicata del biasimo scritto, la più lieve tra le misure
afflittive, appariva congrua. Analogamente, il successivo ammanco di 2 milioni,
verificatosi su un versamento effettuato da un cliente, era stato dal C.
riconosciuto con lettera di giustificazioni del 20 ottobre 2000, poi ripianato
sempre con fondi propri. In tal caso, tenuto conto che la segnalazione
dell?ammanco proveniva dal cliente e che ciò aveva indubbiamente arrecato
pregiudizio all?immagine dell?azienda, la sanzione della sospensione del lavoro
e dalla retribuzione di due giorni non poteva ritenersi eccessiva, nè tantomeno
vessatoria. La circostanza, poi, che la sanzione non fosse stata eseguita non
era di certo indice di una condotta prevaricatrice, ma al contrario di un
atteggiamento accomodante tenuto dalla Banca in considerazione, probabilmente,
dell?immediata ammissione dei fatti da parte del lavoratore e della repentina
riparazione del danno economico. Riguardo, infine, al diverbio con un cliente,
che aveva formato oggetto di un terzo rilievo disciplinare, lo stesso teste
indicato dal ricorrente aveva riconosciuto la storicità dell?episodio, di modo
che la contestazione datoriale non appariva arbitraria, mentre il fatto che ad
essa non fosse seguita la comminazione di alcuna sanzione dimostrava l?implicito
accoglimento delle giustificazioni addotte dal dipendente. In definitiva,
secondo la Corte distrettuale, proprio la valutazione complessiva dei fatti
caratterizzanti la vicenda in esame, quali emersi in sede di giudizio, imponeva
di ritenere insussistente l?asserito mobbing, in quanto dei fatti all?uopo
addotti a sostegno risultava attestata la sola reiterata applicazione del
distacco per un periodo di sei mesi, avuto altresì riguardo alla circostanza che
non vi era preciso riscontro in atti di un intento persecutorio o
discriminatorio. Infine, la Corte territoriale riteneva come il mobbing non si
esaurisse nella sommatoria di comportamenti già vietati dalla legge, ma
postulasse ed esigesse un elemento psicologico aggiuntivo, ossia l?animus
nocendi, che rende vietati i comportamenti altrimenti leciti e aggrava il
significato giuridico nonché sociale di comportamenti già vietati e per i quali
l?ordinamento già assicura tutela, ossia un complesso di azioni che, in quanto
convergenti verso un fine ultimo vessatorio, ed organizzate in sequela, oltre ad
arrecare un maggior danno, perseguono un intento di degrado che il singolo atto
non sarebbe altrimenti in grado di conseguire;
pertanto, dalla lettura della pronuncia d?appello non risulta che il C. abbia
fondato l?azionata pretesa risarcitoria sulla violazione del cit. art. 33, nè
che una tale violazione sia stata dedotta come motivo di appello, laddove per
contro il ricorrente si è limitato a richiamare i precedenti atti (v. in part.
l?elenco degli allegati a pag. 5 del ricorso: l?atto introduttivo del giudizio,
il doc. 23 ivi prodotto, la memoria di costituzione per la parte appellata, i
documenti da 8 a 19 versati con il succitato ricorso introduttivo ed i
certificati medici per esso C. già allegati a detto ricorso con i nn. 3, 4 e 5).
Di conseguenza, non sono state chiarite, nei termini specificamente invece
occorrenti a norma dell?art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, soprattutto le ragioni
di diritto (causae petendi) poste a sostegno della domanda. Parimenti dicasi per
quanto riguarda i motivi d?appello, che risultano invece distintamente enunciati
ai punti 1 (doglianza relativa al non riconoscimento del preteso comportamento
vessatorio), 2 (asserita finalità discriminatorio desunta dal mancato
avanzamento di carriera) e 3 (circa il dedotto carattere pretestuoso e
strumentale di precedenti contestazioni disciplinari, che sarebbe stato
dimostrato, secondo la versione di parte attrice, dall?omessa applicazione delle
sanzioni inflitte) delle ragioni poste a sostegno della sentenza d?appello;
alla luce delle evidenti carenti allegazioni, in violazione del principio di
autosufficienza, deve escludersi che il C. sia in primo che in secondo grado
abbia denunciato la violazione della L. n. 104 del 1995, art. 33, comma 5, per
sostenere la domanda di risarcimento del danno (non patrimoniale, quantificata
Euro 60.000,00), di guisa che in appello (che non è un "judicium novum", ma una
"revisio prioris instantiae" - cfr. tra le altre Cass. II civ. n. 4695 del
23/02/2017) correttamente non risulta essere stata esaminata alcuna questione,
in fatto ed in diritto, inerente al suddetto art. 33, comma 5, per cui, attesa
la novità della censura, la stessa nemmeno è ritualmente prospettabile in questa
sede di legittimità;
analogamente deve osservarsi per quanto concerne l?art. 2087 c.c. (norma di
carattere generale, la quale disciplina la tutela delle condizioni di lavoro),
che, ad ogni modo, non configura un?ipotesi di responsabilità oggettiva, in
quanto la responsabilità del datore di lavoro - di natura contrattuale - va
collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di
legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento, sicché
incombe al lavoratore ex art. 2697 c.c., comma 1 - che lamenti di avere subito,
a causa dell?attività lavorativa svolta, un danno alla salute - l?onere di
provare, oltre all?esistenza di tale danno, la nocività dell?ambiente di lavoro,
nonché il nesso tra l?una e l?altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale
prova sussiste - ex art. 2697, comma 2 - per il datore di lavoro l?onere di
provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi
del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza
di tali obblighi (cfr. Cass. lav. n. 24742 in data 8/10/2018 ed altre conformi);
di conseguenza appaiono inconferenti le denunciate violazioni di legge, pure con
riferimento ai surriferiti artt. 2697, 115 e 116, visto che nell?ambito del
gravame devolutole la Corte di merito ha motivatamente esaminato le doglianze
menzionate nell?impugnata sentenza, disattendendole, sulla scorta altresì delle
acquisite risultanze istruttorie ed evidenziando inoltre, nei limiti delle sue
precipue attribuzioni e dei propri poteri di apprezzamento ed accertamento in
fatto, insindacabili in questa sede di legittimità, l?insussistenza di fondati
elementi di cognizione tali da poter ravvisare in concreto il denunciato
mobbing, in difetto del pur necessario requisito psichico, individuato dalla
stessa Corte nell?animus nocendi, su cui peraltro non risulta alcuna specifica e
pertinente confutazione da parte ricorrente con la censura de qua (cfr. tra le
altre Cass. lav. n. 12437 del 21/05/2018: è configurabile il "mobbing"
lavorativo ove ricorra l?elemento obiettivo, integrato da una pluralità di
comportamenti del datore di lavoro, e quello soggettivo dell?intendimento
persecutorio del datore medesimo.
V. altresì parimenti Cass. lav. n. 17698 del 06/08/2014: ai fini della
configurabilità del mobbing lavorativo devono ricorrere: a) una serie di
comportamenti di carattere persecutorio - illeciti o anche leciti se considerati
singolarmente - che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la
vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da
parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri
dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l?evento lesivo della
salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico
tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria
integrità psicofisica e/o nella propria dignità; d) l?elemento soggettivo, cioè
l?intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi. Conformi
Cass. lav. n. 3785 del 17/02/2009 e n. 898 del 17/01/2014.
Cfr. inoltre in motivazione Cass. lav. n. 26684/17 in data 23/05 - 10/11/2017:
"l?elemento qualificante va ricercato non nella legittimità o illegittimità dei
singoli atti, bensì nell?intento persecutorio che li unifica, che deve essere
provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria e che spetta al
giudice del merito accertare o escludere, tenendo conto di tutte le circostanze
del caso concreto?);
analoghe considerazioni, in termini d?inammissibilità, possono valere per le
doglianze mediante cui in effetti il ricorrente contesta pure il ragionamento
decisorio, peraltro coerente e logico nella sua esposizione, in forza del quale
i giudici di merito hanno ritenuto di dover rigettare la domanda della parte
attrice, che però irritualmente in questa sede di legittimità tende in concreto
a svilirne il fondamento; pretesa tanto più inammissibile nella specie, laddove
operano i limiti maggiormente rigorosi imposti dall?attuale e vigente
formulazione dell?art. 360 c.p.c., n. 5 (cfr. tra l?altro Cass. III civ. n.
11892 del 10/06/2016, secondo cui pure il cattivo esercizio del potere di
apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo
ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo
inquadrabile nel paradigma dell?art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 - che attribuisce
rilievo all?omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui
esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia
costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per
il giudizio, nè in quello del precedente n. 4, disposizione che - per il tramite
dell?art. 132 c.p.c., n. 4 - dà rilievo unicamente all?anomalia motivazionale
che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante. Ed in senso
analogo su quest?ultimo punto, circa il solo c.d. minimo costituzionale,
rilevante ex art. 360, n. 5, v. altresì Cass. sez. un. civ. nn. 8053 e 8054 del
2014);
come è noto (cfr., tra le altre, Cass. I civ. n. 16526 del 5/8/2016), in tema di
ricorso per cassazione per vizi della motivazione della sentenza, il controllo
di logicità del giudizio del giudice di merito non equivale alla revisione del
ragionamento decisorio, ad.za 02-10-18/ r.g. n. 13254-14 ossia dell?opzione che
ha condotto tale giudice ad una determinata soluzione della questione esaminata,
posto che ciò si tradurrebbe, pur a fronte di un possibile diverso inquadramento
degli elementi probatori valutati, in una nuova formulazione del giudizio di
fatto in contrasto con la funzione assegnata dall?ordinamento al giudice di
legittimità (v. altresì Cass. sez. 6-5, n. 91 del 7/1/2014, secondo cui per
l?effetto la Corte di Cassazione non può procedere ad un nuovo giudizio di
merito, con autonoma valutazione delle risultanze degli atti, nè porre a
fondamento della sua decisione un fatto probatorio diverso od ulteriore rispetto
a quelli assunti dal giudice di merito. Conformi Cass., n. 15489 del 2007 e n.
5024 del 28/03/2012. Cfr. ancora Cass. Il civ. n. 24434 del 30/11/2016: in tema
di valutazione delle risultanze probatorie in base al principio del libero
convincimento del giudice, la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., è
apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di
motivazione di cui all?art. 360, c.p.c., comma 1, n. 5) e deve emergere
direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di
causa, inammissibile in sede di legittimità. Id. n. 11176 - 08/05/2017: nel
quadro del principio, espresso nell?art. 116 c.p.c., di libera valutazione delle
prove - salvo che non abbiano natura di prova legale, il giudice civile ben può
apprezzare discrezionalmente gli elementi probatori acquisiti e ritenerli
sufficienti per la decisione, attribuendo ad essi valore preminente e così
escludendo implicitamente altri mezzi istruttori richiesti dalle parti. Il
relativo apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità, purché risulti
logico e coerente il valore preminente attribuito, sia pure per implicito, agli
elementi utilizzati. Cass. III civ. n. 11892 del 10/06/2016: la violazione
dell?art. 115 c.p.c., può essere dedotta come vizio di legittimità solo
denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la
regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non
introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi
riconosciutigli, e non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte
dalle parti, ha attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto
che ad altre. Cfr. altresì Cass. II civ. n. 2707 del 12/02/2004, secondo cui le
norme - art. 2697, 55.- poste dal Libro VI, Titolo II del Codice civile regolano
le materie: a) dell?onere della prova; b) dell?astratta idoneità di ciascuno dei
mezzi in esse presi in considerazione all?assolvimento di tale onere in
relazione a specifiche esigenze; c) della forma che ciascuno di essi deve
assumere; non anche la materia della valutazione dei risultati ottenuti mediante
l?esperimento dei mezzi di prova, che è viceversa disciplinata dagli artt. 115 e
116 c.p.c. e la cui erroneità ridonda quale vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1,
n. 5);
pertanto, si appalesa l?inammissibilità delle varie doglianze al riguardo mosse
da parte ricorrente, di modo che il ricorso va disatteso, con conseguente
condanna della parte soccombente al rimborso delle relative spese;
stante l?esito del tutto negativo dell?impugnazione, ricorrono, infine, i
presupposti processuali di legge per il pagamento dell?ulteriore contributo
unificato.
P.Q.M.
La Corte RIGETTA il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese,
che liquida a favore della parte controricorrente in Euro 4000,00
(quattromila/00) per compensi professionali ed in Euro 200,00 (duecento/00) per
esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge. Ai sensi
del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza
dei presupposti processuali per il versamento, da parte ricorrente,
dell?ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, se
dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
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