Civile Ord. Sez. 3 Num. 31889 Anno 2019 Presidente: ARMANO ULIANA Relatore: GRAZIOSI CHIARA
Civile Ord. Sez. 3 Num. 31889 Anno 2019 Presidente: ARMANO ULIANA Relatore:
GRAZIOSI CHIARA Data pubblicazione: 06/12/2019
Rilevato che
Con atto di citazione notificato il 23 settembre 2004 Nuova Rivetteria Bolognese
S.r.l. conveniva davanti al Tribunale di Bologna Worknet-Lavoro Temporaneo
S.p.A. - poi Gl Group S.p.A. - per ottenerne la condanna ex articolo 2049 c.c.
al risarcimento dei danni a essa cagionati in un sinistro stradale da tale M.Z.,
dipendente della convenuta, eseguendo il contratto di fornitura di lavoro
temporaneo stipulato fra le due società. Controparte si costituiva, resistendo,
e veniva autorizzata a chiamare la sua compagnia assicuratrice Ras S.p.A. - poi
divenuta Allianz S.p.A. - che a sua volta si costituiva resistendo.
Con sentenza del 24 giugno 2009 il Tribunale rigettava la domanda, condannando
l'attrice a rifondere le spese alla convenuta e alla chiamata.
Nuova Rivetteria Bolognese proponeva appello, cui le controparti si costituivano
resistendo, e che la Corte d'appello di Bologna rigettava con sentenza del 15
novembre 2017.
Nuova Rivetteria Bolognese ha proposto ricorso sulla base di due motivi, da cui
si sono difese con rispettivo controricorso Gl Group e Allianz; tutte le parti
hanno depositato anche memoria.
Considerato che:
1. Il primo motivo denuncia violazione e/o falsa applicazione degli articoli
2049 c.c., 20 e 26 d.lgs. 276/2003 e 14 prel. per essere stata esclusa la
responsabilità ai sensi dell'articolo 2049 c.c. del somministratore per i danni
causati dal lavoratore somministrato all'utilizzatore della prestazione.
La Corte d'appello avrebbe ritenuto norma rilevante l'articolo 20 d.lgs.
276/2003, per cui durante la missione "I lavoratori svolgono la propria attività
nell'interesse nonché sotto la direzione e il controllo dell'utilizzatore"; ne
avrebbe dedotto che, come già ritenuto dal giudice di prime cure, l'utilizzatore
ha potere e dovere di dirigere e controllare il lavoratore svolgente la propria
attività nel suo interesse, per cui il somministratore non ha onere di dirigere
e controllare, onde non è responsabile ex articolo 2049 c.c.; lo confermerebbe
l'articolo 26 d.lgs. 276/2003, in forza del quale l'utilizzatore è responsabile
nei confronti dei terzi per i danni loro causati dal lavoratore.
Secondo la corte territoriale, in sostanza, "il passaggio in capo
all'utilizzatore del potere direttivo e di controllo comporterebbe una
traslazione della posizione di Datore di lavoro e, quindi, anche della posizione
di garanzia che l'art. 2049 c.c. ascrive a detta posizione giuridica".
Oppone la ricorrente che l'articolo 20 d.lgs. 276/2003 non trasferisce la
posizione giuridica di datore di lavoro all'utilizzatore: quest'ultimo, per "un
contratto commerciale tipico", esercita legalmente "solo alcuni poteri" del
datore di lavoro nei confronti di un lavoratore con cui non ha però alcun
rapporto contrattuale. Pertanto non esercita "di fatto" il potere di datore del
lavoro, e dunque non diventa datore di lavoro ai sensi dell'articolo 2094 c.c.
"poiché di fatto ha assunto quel ruolo, magari anche in violazione" delle leggi.
Esercita invece i poteri del datore di lavoro per "specifiche norme legali e
contrattuali": l'articolo 20 d.lgs. 276/2003, appunto, e il contratto di
somministrazione.
Il legislatore "chiarisce esplicitamente che il somministratore resta il datore
di lavoro", e non formalmente - come sembra sia stato inteso dalla corte
territoriale -, bensì conservando "fondamentali posizioni giuridiche" relative
al rapporto di lavoro subordinato: posizioni passive (l'obbligo di corrispondere
la retribuzione; in parte, l'obbligo di garantire la sicurezza del lavoratore;
posizione di parte nel rapporto previdenziale; posizione di soggetto passivo
rispetto all'esercizio dei diritti sindacali) e posizioni attive (potere
disciplinare e, "in parte rilevante, potere direttivo").
L'articolo 21 d.lgs. 276/2003, poi, fornisce il modello legale del contratto di
somministrazione, che prevede l'indicazione soltanto del numero dei lavoratori
(al primo comma, lettera b, del suddetto articolo) e delle loro mansioni. "Tale
potere di conformazione della mansione, il cuore del potere direttivo", non è
esercitato dal somministratore soltanto nel momento genetico del contratto di
somministrazione, ma rileva pure nel suo momento funzionale: l'utilizzatore non
può modificare la mansione del lavoratore senza informare il somministratore,
altrimenti diventa esclusivamente responsabile (cfr. articolo 23, sesto comma,
d.lgs. 276/2003).
Il potere direttivo, sempre ad avviso della ricorrente, permane in capo al
somministratore anche perché egli può "decidere, discrezionalmente, di ritirare
dalla missione" il dipendente, eventualmente mandandone un altro: il contratto
infatti lo obbliga a inviare un determinato numero di lavoratori, però non
individuati nominativamente.
Soprattutto, è solo il somministratore-datore di lavoro "a decidere
eventualmente di risolvere il rapporto di lavoro"; e il licenziamento è il
massimo dell'esercizio del potere datoriale.
Il giudice d'appello ha ritenuto che l'articolo 26 d.lgs. 276/2003, prevedendo
la responsabilità dell'utilizzatore nei confronti dei terzi, confermi che
l'utilizzatore riveste la posizione di garanzia di cui all'articolo 2049, la
quale però "si annulla" quando il danneggiato è l'utilizzatore stesso. Ma
qualora l'utilizzatore fosse l'effettivo datore di lavoro, come reputa il
giudice d'appello, l'articolo 26 d.lgs. 276/2003 - adduce la ricorrente - non
avrebbe alcuna utilità normativa; sussisterebbe automatica applicazione
dell'articolo 2049 c.c. e si escluderebbe la responsabilità del somministratore
nei confronti dei terzi. Invece l'articolo 26 citato "non può che essere letto
come una norma speciale derogatoria" dell'articolo 2049; e allora deve essere
oggetto di stretta interpretazione ai sensi dell'articolo 14 prel. Quindi il
giudice d'appello avrebbe errato desumendone l'annullamento di ogni
responsabilità del somministratore nei confronti dell'utilizzatore.
Il motivo argomenta poi sull'affinità tra la fattispecie in esame e quella del
distacco, ulteriore fattispecie di dissociazione, almeno temporanea, tra datore
di lavoro e utilizzatore, ove pure figura il problema dell'articolo 2049 c.c.,
che la giurisprudenza di legittimità avrebbe risolto negando che un potere
direttivo trasferito incida sulla qualità di datore di lavoro.
In conclusione, il somministratore, al quale resta una parte significativa del
potere direttivo, rimane il datore di lavoro, con i conseguenti effetti.
2. Il secondo motivo - presentato in subordine a quello precedente - denuncia
violazione e/o falsa applicazione dell'articolo 91 c.p.c. per essere stata
condannata l'attuale ricorrente a rifondere le spese alla parte chiamata in
causa sia in primo sia in secondo grado, nonostante la domanda di garanzia della
convenuta nei confronti della parte chiamata fosse infondata.
La convenuta avrebbe chiamato la sua compagnia assicuratrice in forza di un
contratto che espressamente escludeva la copertura della responsabilità
derivante dalla circolazione di veicoli a motore su strade di uso pubblico o
aree equiparate (articolo 16, lettera b, delle Condizioni generali di
assicurazione). Nel caso in esame il sinistro avvenne in autostrada, dove lo
M.Z. guidava un autocarro di proprietà dell'utilizzatore.
La giurisprudenza di legittimità riconosce che, se sussiste palese infondatezza
della domanda di garanzia del convenuto nei confronti del chiamato, deve
applicarsi il principio di soccombenza nel loro rapporto processuale, per cui il
soccombente (il chiamante) dovrebbe rifondere le spese. Ciò accade se la
chiamata si rivela palesemente infondata/arbitraria.
3. Va anzitutto superata l'eccezione, avanzata dalla controricorrente Gl Group,
che la ricorrente non abbia interesse al ricorso: nell'atto d'appello risulta
essere stato devoluto anche il profilo dell'accertamento della responsabilità
del lavoratore somministrato M.Z., nella causazione del sinistro (si veda pagina
6 del ricorso), accertamento che era stato oggetto di domanda e istruttoria in
primo grado (ricorso, pagine 3-4). Su questo aspetto la corte territoriale non
si è pronunciata perché preliminare è stata la questione dell'applicabilità in
astratto dell'articolo 2049 c.c. alla fattispecie, per cui il resto è stato
assorbito dal risultato negativo di tale esame. I motivi veicolati nel ricorso
sono quindi vagliabili.
4.1 Il primo motivo concerne una tematica del tutto peculiare: la responsabilità
ex articolo 2049 c.c. dei lavoratori somministrati in relazione al quesito se
una siffatta responsabilità, mentre il lavoratore è in missione presso
l'utilizzatore, risieda soltanto in capo a quest'ultimo oppure permanga anche in
capo al somministratore, onde, nel caso in cui il danneggiato sia proprio
l?utilizzatore, il somministratore assuma completamente il paradigma di cui
all'articolo 2049 in termini di responsabilità appunto nei confronti
dell'utilizzatore.
Nel caso in esame, infatti, l'utilizzatore (non si può non rilevare sin d'ora
che, evidentemente, le parti non avevano stipulato nel contratto una clausola
regolante l'ipotesi di danni cagionati all'utilizzatore dal lavoratore
somministrato) invoca ex articolo 2049 c.c. la responsabilità del
somministratore per i danni che avrebbe subito a seguito di un sinistro stradale
cagionato dal lavoratore M.Z., somministrato come magazziniere-autista, guidando
un autocarro in autostrada.
4.2.1 E' il caso, per ben interpretare, di ricostruire subito la figura del
contratto di somministrazione di forza lavoro alla luce della attinente
normativa e della sua evoluzione.
La I. 24 giugno 1997 n. 196, Norme in materia di promozione dell'occupazione, -
il c.d. pacchetto Treu - ha introdotto il contratto tipico di cui si tratta,
qualificandolo contratto di fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo e
disciplinandolo negli articoli 1-11.
È significativo il fatto che - come emerge immediatamente dalle rubriche degli
articoli 1 e 3 - viene configurato un rapporto multiplo in termini soltanto
funzionali ma non genetici, in quanto frutto non di un unico contratto
trilaterale, bensì di due contratti distinti ma strettamente collegati. Il primo
contratto disciplina il sinallagma tra il fornitore e l'utilizzatore del
lavoratore, ovvero tra due imprenditori (cfr. articolo 1, Contratto di fornitura
di prestazioni di lavoro temporaneo) e il secondo è, per così dire, sotteso al
primo, perché, tramite un'evidente causa ad esso teleologicamente orientata,
consente al fornitore di assumere dipendenti di cui si avvalga per fornire forza
lavoro all'utilizzatore (cfr. articolo 3, Contratto per prestazioni di lavoro
temporaneo). Il riferimento ad una somministrazione - che semanticamente evoca
l'omonimo contratto tipico previsto dagli articoli 1559 ss. del codice civile,
prevedente l'esecuzione da parte del somministrante di prestazioni periodiche o
continuative di cose a favore dell'altro contraente - dal punto di vista
letterale è ancora assente in questa legge; eppure è già ben chiaro che la
fornitura ha per oggetto "prestazioni di lavoro", che sono comunque temporanee
nei confronti della "impresa utilizzatrice", mentre trovano fonte in un
contratto a tempo determinato o in un contratto a tempo indeterminato con quella
fornitrice. Per quanto qui rileva, poi, nell'articolo 3, che disciplina il
contratto tra il fornitore e il lavoratore, al secondo comma viene
inequívocamente statuito che in forza di tale contratto "il lavoratore
temporaneo, per la durata della prestazione lavorativa presso l'impresa
utilizzatrice, svolge la propria attività nell'interesse nonché sotto la
direzione ed il controllo dell'impresa medesima". Questa norma è stata
tralatiziamente inserita nei testi normativi che si sono succeduti nel regolare
la fattispecie in esame.
Sempre all'articolo 3, il quinto comma detta un'ulteriore norma che pure, come
si vedrà, sostanzialmente permane nei successivi testi normativi: "L'impresa
fornitrice informa il prestatore di lavoro temporaneo sui rischi per la
sicurezza e la salute connessi alle attività produttive in generale e li forma e
addestra all'uso delle attrezzature di lavoro necessarie allo svolgimento
dell'attività lavorativa per la quale essi vengono assunti in conformità alle
disposizioni recate dal decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, e
successive modificazioni ed integrazioni. Il contratto di fornitura può
prevedere che tale obbligo sia adempiuto dall'impresa utilizzatrice; in tale
caso ne va fatta indicazione nel contratto di cui al comma 3" (il terzo comma
concerne infatti il contratto tra fornitore e utilizzatore).
4.2.2 Nel caso in esame, è pacifica l'applicabilità ratione temporis della
disciplina introdotta dal decreto legislativo attuativo della c.d. Legge Biagi -
L. 14 febbraio 2003 n. 30 -, cioè il d.lgs. 10 settembre 2003 n. 276, Attuazione
delle deleghe in materia di occupazione e mercato dei lavoro, di cui alla legge
14 febbraio 2003, n.30. In tale decreto, il titolo III, capo I - articoli 20-28
-, è proprio dedicato alla "Somministrazione di lavoro".
Per quanto qui interessa, l?articolo 20, secondo comma, nel suo testo originario
(qui applicabile) stabilisce: "Per tutta la durata della somministrazione i
lavoratori svolgono la propria attività nell'interesse nonché sotto la direzione
e il controllo dell'utilizzatore...". Evidente è la ripresa del dettato in tal
senso presente nel testo normativo anteriore.
E' comunque disciplinato quel che ora viene qualificato come una fattispecie di
somministrazione (la semantica discende sine dubio da un'ottica economica,
orientandosi sull'elemento oggettivo della forza lavoro, così da investire
l'espressione che il codice civile, come si è visto, riserva a prestazioni di
cose) mantenendo l'intrinseco rapporto funzionale dei due negozi peraltro
distinti: il "contratto di somministrazione di manodopera", che viene stipulato
tra somministratore e utilizzatore, e il contratto di lavoro, a tempo
determinato o indeterminato, tra il somministratore e il prestatore di lavoro.
Questo decreto legislativo introduce, tuttavia, come un (apparente, si vedrà)
novum, la norma in relazione alla quale, come si è constatato, la ricorrente
spende un'ampia argomentazione, cioè l'articolo 26, Responsabilità civile, che
così recita: "Nel caso di somministrazione di lavoro !'utilizzatore risponde nei
confronti dei terzi dei danni a essi arrecati dal prestatore di lavoro
nell'esercizio delle sue mansioni".
L'articolo 23, poi, al quinto comma stabilisce: "Il somministratore informa i
lavoratori sui rischi per la sicurezza e la salute connessi alle attività
produttive in generate e li forma e addestra all'uso delle attrezzature di
lavoro necessari allo svolgimento della attività lavorativa per la quale essi
vengono assunti in conformità alle disposizioni recate dal decreto legislativo
19 settembre 1994, n. 626, e successive modificazioni ed integrazioni. Il
contratto di somministrazione può prevedere che tale obbligo sia adempiuto
dall'utilizzatore; in tale caso ne va fatta indicazione ne! contratto con il
lavoratore. Nel caso in cui le mansioni cui è adibito il prestatore di lavoro
richiedono una sorveglianza medica speciale o comportino rischi specifici,
¡'utilizzatore ne informa il lavoratore conformemente a quanto previsto dai
decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, e successive modificazioni ed
integrazioni. L'utilizzatore osserva altresi, nei confronti del medesimo
prestatore, tutti gli obblighi di protezione previsti nei confronti dei propri
dipendenti ed è responsabile per la violazione degli obblighi di sicurezza
individuati dalla legge e dai contratti collettivi". È evidente l'origine della
norma nell'articolo 3, quinto comma, l. 196/1997.
4.2.3 Infine, è intervenuto uno dei testi normativi riconducibili al c.d. Jobs
Act, ovvero il d.lgs. 15 giugno 2015 n. 81, che disciplina la figura in esame
mediante gli articoli 30-40 - costituenti il Capo IV, Somministrazione di lavoro
-, ed è attualmente vigente.
Per quel che qui interessa, l'articolo 30 definisce contratto di
somministrazione di lavoro "Il contratto, a tempo indeterminato o determinato,
con il quale un'agenzia di somministrazione autorizzata, ai sensi dei decreto
legislativo n. 276 dei 2003, mette a disposizione di un utilizzatore uno o più
lavoratori suoi dipendenti, i quali, per tutta la durata della missione,
svolgono la propria attività nell'interesse e sotto la direzione e il controllo
dell'utilizzatore".
E l'articolo 35, al quarto comma, segue ancora - aggiornandola - la linea dei
due testi normativi precedenti, così stabilendo: "Il somministratore informa i
lavoratori sui rischi per la sicurezza e la salute connessi alle attività
produttive e li forma e addestra all'uso delle attrezzature di lavoro necessarie
allo svolgimento dell'attività lavorativa per la quale essi vengono assunti, in
conformità al decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81. Il contratto di
somministrazione può prevedere che tale obbligo sia adempiuto dall'utilizzatore.
L'utilizzatore osserva nei confronti dei lavoratori somministrati gli obblighi
di prevenzione e protezione cui è tenuto, per legge e contratto collettivo, nei
confronti dei propri dipendenti".
Questo testo normativo - che all'articolo 55 abroga, tra gli altri, gli articoli
da 20 a 28 del d.lgs. 276/2003 - non include però alcuna norma riproducete
quella di cui all'articolo 26 d.lgs. 276/2003, che, come si è visto, era stata
introdotta proprio dalla riforma Biagi.
4.3 Passando allora al contenuto concreto della controversia, deve darsi atto
che la Corte d'appello di Bologna, a fronte del primo motivo d'appello -
strutturato sostanzialmente (a parte le confutazioni specifiche qui introdotte
rispetto alla risposta della sentenza impugnata) come il motivo in esame - la
corte territoriale segue un sintetico percorso di confutazione.
In primo luogo afferma che Cass. 215/2010, citata dall'appellante, "riguarda una
fattispecie estranea", cioè il "distacco del dipendente presso altra
organizzazione aziendale".
In secondo luogo, identifica la norma rilevante nell'articolo 20 d.lgs. 276/2003
laddove stabilisce che "per tutta la durata della missione i lavoratori svolgono
la propria attività nell'interesse nonché sotto la direzione e il controllo
dell'utilizzatore" (si tratta del secondo comma della norma, come modificato dal
d.lgs. 2 marzo 2012 n. 24, e dunque di un testo ratione temporis non applicabile
nel giudizio de quo, avviato nel 2004; dato che la corte territoriale non ha
avvertito, ma che apporta comunque una mera differenza semantica e non
contenutistica ). Da tale norma la corte reputa che "non può che trarsi il
principio, già fatto proprio dal Tribunale, che l'utilizzatore abbia il potere
ed il dovere di dirigere e controllare il lavoratore che svolge la sua attività
nel suo interesse. Da ciò deriva che non possa farsi ricadere sul
somministratore l'onere di dirigere e, tantomeno, controllare l'attività del
lavoratore dal momento in cui egli si è inserito, come nella fattispecie, seppur
temporaneamente, nella struttura organizzativa della appellante", altrimenti il
dettato dell'articolo 20 non sarebbe stato introdotto.
A questo punto, la corte considera l'articolo 26 d.lgs. 276/2003, deducendo
"dalla direzione e controllo dell'utilizzatore" la sua responsabilità per
l'illecito del lavoratore, appunto ai sensi dell'articolo 26.
Infine, si richiama come costante la giurisprudenza di legittimità per cui
sussiste "responsabilità di colui che si avvalga per l'esecuzione di un
determinato lavoro del soggetto del quale abbia in proprio la vigilanza e la
direzione".
4.4 Il riferimento a tale giurisprudenza, sviluppatasi in ordine all'articolo
2049 c.c., immediatamente dopo aver richiamato l'articolo 26 d.lgs. 276/2003 non
è dirimente - obietta la ricorrente -, in quanto la responsabilità nei confronti
dei terzi discenderebbe comunque in capo all'utilizzatore in forza dell'articolo
2049 c.c.; e allora - sostiene ancora la ricorrente - l'articolo 26 deve
rivestire un altro e proprio significato. Il significato che la ricorrente
prospetta comporta che l'ambito su cui non incide l'articolo 26 - il quale
verrebbe a regolare la responsabilità per l'illecito del lavoratore
somministrato nei confronti dei terzi, gravandone l'utilizzatore -, id est la
responsabilità non nei confronti di terzi bensì nei confronti della controparte
contrattuale, dovrebbe essere disciplinato, rientrando così nel paradigma
generale che discende dal rapporto datoriale, dall'articolo 2049 c.c. Ergo,
essendo il somministratore il datore di lavoro del soggetto somministrato,
spetterebbe al somministratore la responsabilità nei confronti dell'utilizzatore
per i danni cagionati dal lavoratore.
La peculiarità della fattispecie avrebbe, ancora secondo la ricorrente, condotto
il legislatore ad una spartizione degli obblighi e delle responsabilità
datoriali, in particolare stabilendo la normativa l'obbligo del somministratore
di formare e informare il lavoratore (previsione, questa, che come si è visto
più sopra, è stata sempre presente nei testi normativi che si sono susseguiti).
Pertanto, responsabile dei fatti illeciti sarebbe chi ha addestrato il
lavoratore, ovvero il somministratore, configurandosi responsabilità da fatti
illeciti del lavoratore in capo aH'utilizzatore soltanto se questo lo abbia
adibito a mansioni diverse da quelle per cui è stato somministrato. Dalla
formazione del lavoratore imposta dal contratto di lavoro, nella sua tipicità
legale (si ricorda che è concessa all'autonomia negoziale la translatio
dell'obbligo all'utilizzatore) come obbligo del somministratore, seguendo
l'ottica della ricorrente deriverebbe, per così dire all'esterno dell'ambito di
esecuzione contrattuale, e dunque su un piano indiretto, la responsabilità ai
sensi dell'articolo 2049 c.c. del somministratore. Da qui, allora, per
"tamponare" l'applicabilità dell'articolo 2049 c.c. considerato che, una volta
inviato "in missione", il lavoratore somministrato opera "nell'interesse nonché
sotto la direzione ed il controllo" dell'utilizzatore, discenderebbe la norma
speciale di cui all'articolo 26 d.lgs. 276/2003. Lettura che le attribuirebbe
una valenza concreta e reale, che altrimenti non avrebbe, diventando una norma
"vuota", ovvero non configurante a contrario la permanenza di una responsabilità
per fatto illecito in capo al somministratore, ovvero quella relativa ai fatti
illeciti commessi dal somministrato nei confronti dell'utilizzatore.
Per giungere, in sostanza, a tale risultato, la ricorrente invoca pure opinioni
dottrinali a favore dell'esistenza in questa fattispecie di due datori di
lavoro, il somministratore e l'utilizzatore, che spartirebbero la responsabilità
oggettiva per il danno provocato dal lavoratore, nel senso che questa rifletta
la diversa natura delle preposizioni del lavoratore da parte dei suoi datori di
lavoro. Ciò condurrebbe a riconoscere la responsabilità del danno da parte del
fornitore nel caso in cui non sia ravvisabile alcuna colpa dell'utilizzatore; e
non si può non rilevare che, seguendo questa via, visto il dettato dell'articolo
26 si profilerebbe quantomeno un'azione di rivalsa dell'utilizzatore nei
confronti del somministratore.
4.5 La questione non può non essere risolta in considerazione della specifica
normativa che disciplina la fattispecie, dovendosi condividere con la ricorrente
che la relazione dell'utilizzatore con il lavoratore non è un rapporto di fatto,
bensì un diretto effetto normativo.
Il datore di lavoro del somministrato è il soggetto che stipula con lui un
contratto di lavoro, a tempo determinato o indeterminato che sia: in questo
peculiare quadro di fusione funzionale dei due contratti - la somministrazione
non può essere adempiuta se il somministratore non ha assunto dipendenti -, il
datore di lavoro nel contratto con il lavoratore coincide con il somministratore
nel contratto con l'utilizzatore. Sulla qualità di datore di lavoro
dell'imprenditore che svolge attività di somministrazione di forza lavoro si è
recentemente pronunciata questa Suprema Corte: Cass. sez. L, 8 marzo 2019 n.
8870, a proposito di un contratto a tempo indeterminato, è stata massimata nel
senso che "ai sensi dell'art. 20, comma 2, del d.lgs. 276 del 2003, il rapporto
di lavoro dipendente intercorre tra il lavoratore somministrato e l'agenzia che
lo assume e retribuisce, per cui, sebbene la prestazione venga resa in concreto
a beneficio dell'utilizzatore, il legame funzionale tra somministratore e
lavoratore permane anche nei periodi tra una missione ed un'altra, ed il
lavoratore ha diritto di percepire un compenso, c.d. indennità di disponibilità,
prevista dall'art. 22, comma 3, dello stesso decreto, che ha natura retributiva
e trova la sua giustificazione causate nella messa a disposizione delle
attitudini lavorative dei somministrato in attesa di future utilizzazioni."
In motivazione, così si esprime il suddetto arresto:
"Il contratto di somministrazione di lavoro ... rappresenta il più recente
approdo dei tentativi effettuati dal legislatore di regolare il fenomeno
giuridico della dissociazione tra titolarità del contratto di lavoro ed
utilizzazione della prestazione.
Il contratto di somministrazione configura, infatti, un rapporto giuridico
caratterizzato dalla presenza di tre soggetti: il somministratore o agenzia, il
lavoratore e l'utilizzatore che concludono tra loro due distinti contratti. Il
contratto di somministrazione è quello concluso tra l'agenzia e l'utilizzatore
per l'invio di lavoratori presso l'utilizzatore che provvederà a dirigerli verso
il pagamento di un corrispettivo. Tale contratto può essere a termine o a tempo
indeterminato.
Diverso contratto è quello di lavoro somministrato, con cui il lavoratore si
obbliga nei confronti della agenzia di somministrazione a lavorare alle
condizioni previste dai contratti di somministrazione che essa stipulerà. Anche
questo contratto può essere a tempo determinato o a tempo indeterminato.
Non v'è dubbio che in base alla legge ... il rapporto di lavoro dipendente
intercorre tra lavoratore ed agenzia che lo assume e lo retribuisce, mentre la
prestazione viene in concreto resa a beneficio dell'utilizzatore.
Si verifica quindi la scissione tra titolarità del rapporto di lavoro ed
esercizio dei poteri direttivi ... La messa a disposizione di energie
lavorative, obbligazione che contrassegna il lavorare alle dipendenze altrui, è
presente anche nel periodo di attesa e si colloca nella fase preparatoria
dell'adempimento. Rimane altresì la continuità giuridica, caratteristica della
subordinazione, pur a fronte della discontinuità della prestazione. Ne deriva
che negli intervalli di non lavoro, fra una missione e l'altra, ... si configura
un obbligo a carico del datore i cui effetti sono disciplinati dalla stessa
legge con la previsione, tra l'altro, del pagamento di un'indennità di
disponibilità che ha natura retributiva e di corrispettivo dell'obbligazione
della messa a disposizione del lavoratore ... Elemento caratterizzante della
somministrazione a tempo indeterminato è quindi la permanenza del legame tra
agenzia di somministrazione e lavoratore in somministrazione anche nei periodi
di inutilizzazione tra un'assegnazione e l'altra...".
4.6 Che il datore di lavoro sia il soggetto che stipula con il lavoratore il
contratto di assunzione non appare, invero, discutibile. Un approfondimento
merita invece la connessione tra i due contratti, la cui sussistenza - non vi è
quindi, già lo si rilevava, un unico contratto trilaterale - è riconosciuta
apertis verbis nell'arresto appena richiamato.
Anche se a prima vista appare un'inversione di sequenza, per meglio comprendere
è allora più agevole prendere le mosse dal contratto di somministrazione. Come
sopra si è detto, l'espressione "somministrazione" è stata utilizzata a partire
dal 2003 - sostituendo la semantica più "cauta" della l. 196/1997 -, ed evoca
ineludibilmente la classica figura tipica presente nel codice civile agli
articoli 1559 ss.: ovvero, un contratto a prestazioni corrispettive, ove una
parte si obbliga, appunto "verso il corrispettivo di un prezzo", a eseguire
prestazioni di cose "a favore dell'altra" (articolo 1559). Nella
somministrazione di lavoro, il somministratore si obbliga nei confronti
dell'utilizzatore a prestazioni non di cose, ma di attività non da lui svolte.
Quel che viene chiamato forza lavoro è, in effetti, non una cosa, bensì attività
umana.
Mentre nel contratto presente nel codice civile la prestazione di cose
costituisce l'obbligazione che, in corrispettivo al prezzo, il somministratore
deve adempiere - adempimento che effettuerà personalmente oppure avvalendosi dei
propri dipendenti/preposti/mandatari -, nella somministrazione de qua l'oggetto
della prestazione è appunto l'attività lavorativa. Attività lavorativa che non
può mai essere dello stesso somministratore. Però, conferendo tale attività
lavorativa - non a caso si è introdotto anche il termine "missione", che
riecheggia il paradigma del mandato, di cui vi è ancora qualche residuo nel tipo
legale della somministrazione di lavoro - il somministratore adempie il proprio
obbligo, e così fa scattare l'obbligo del versamento del corrispettivo da parte
dell'utilizzatore. A ben guardare, allora, sotto il profilo sinallagmatico non è
propriamente corretto affermare che il lavoratore "somministrato" - rectius,
inviato in "missione" a lavorare nell'organizzazione imprenditoriale
dell'utilizzatore - svolge la sua attività (esclusivamente) nell?interesse
dell'utilizzatore.
In realtà, nelle norme che, tralatiziamente l'una dopo l'altra, hanno espresso
questo dettato è implicito un "anche". Il lavoratore lavora sia nell'interesse
dell'utilizzatore - il quale pertanto lo inserisce nella sua organizzazione
d'impresa, onde lo dirige e lo controlla -, sia nell'interesse del
somministratore, e proprio sotto quest'ultimo profilo si evidenzia al massimo la
connessione tra i due contratti. Il lavoratore infatti lavora pure
nell'interesse del somministratore, perché il suo lavoro costituisce la
prestazione corrispettiva agli obblighi del datore discendenti dal contratto di
lavoro, che è contratto di natura onerosa a prestazioni corrispettive; e il
lavoratore lavora, altresì, nell'interesse del somministratore perché tramite il
lavoro di lui il somministratore adempie al proprio obbligo nei confronti
dell'utilizzatore, così da far insorgere in capo al somministratore il diritto
al corrispettivo da parte dell'utilizzatore.
Il somministratore, infatti, è un imprenditore, come l'utilizzatore; i due
imprenditori condividono in modo diverso ma anche parallelo vantaggiosi effetti
economici dell'attività del lavoratore. Il quale poi, si nota per completezza, a
sua volta ha interesse ad adempiere il proprio obbligo di lavoro per ottenere il
proprio corrispettivo.
Vi è dunque un intreccio di interessi giuridici - nonché, a monte, ovviamente
economici - all'esecuzione da parte del lavoratore delle prestazioni inserite
nella struttura imprenditoriale dell'utilizzatore. Lo stesso somministratore, a
ben guardare, è sotto il profilo appena illustrato un "utilizzatore" delle
prestazioni lavorative del lavoratore. Ovviamente questa sovrapposizione di
interessi deve essere governata dai due contratti in gioco, i quali godono di
una tipicità normativa che, peraltro, lascia pure un certo spazio all'autonomia
negoziale.
4.7 A questo punto può esaminarsi con maggiore chiarezza le conseguenze di un
fatto illecito commesso dal lavoratore mentre sta effettuando la sua
prestazione, come si è visto diretta a soddisfare una molteplicità di interessi
sinallagmatici.
Il fatto illecito, di per sé, può, ma non necessariamente, coincidere con
l'inadempimento contrattuale. Poiché viene comunque commesso, nell'ipotesi che
qui rileva, mentre il lavoratore è inserito nella struttura organizzativa
dell'utilizzatore, ovvero mentre il lavoratore sta prestando il servizio cui
quest'ultimo lo ha adibito, non è accettabile un'atrofizzazione (che in realtà
l'impostazione della ricorrente effettua, spostando il baricentro ermeneutico
sull'articolo 26 scandagliato a contrario) della norma - qui l'articolo 20
d.lgs.276/2003 - che disegna e disciplina tale inserimento.
In considerazione di quanto si è appena rilevato in ordine alla pluralità di
interessi sinallagmatici insita nella fattispecie - intendendo per essa la
fusione funzionale/esecutiva dei due negozi -, non si può intendere l'interesse
richiamato in detta norma come l'unico sussistente. Al contrario, occorre
svincolarlo da una natura esclusivamente sinallagmatica - giacché altrimenti,
per la pluralità appena riscontrata, l'interpretazione condurrebbe all'assurdo
-, contestualizzando l'espressione con il congiunto riferimento, presente nel
dettato normativo, a direzione e controllo dell'utilizzatore. L'espressione
semantica è ben noto che sempre deve sincronizzarsi/relativizzarsi al contesto e
alla ratio normativa. Lavorare "nell'interesse" congiunto ai poteri di direzione
e controllo di chi di detto interesse è il titolare non può non significare a
questo punto - passando da un'ottica meramente sinallagmatica a una
materiale/esecutiva - , essere adibiti da tale soggetto con modalità concrete
nella sua organizzazione imprenditoriale.
E' logico allora, prima ancor che giuridico (e non a caso coincide con la ratio
del paradigma del generale articolo 2049 c.c.: la predisposizione), che,
nell'ipotesi in cui il lavoratore cagioni danni a terzi, la concreta gestione
direzionale dell'utilizzatore, espressa dai testi normativi in modo continuo - e
dunque caratterizzante - come si è visto, comporta la responsabilità
extracontrattuale dell'utilizzatore stesso. Non avrebbe altrimenti alcun
significato l'inserimento specifico nella struttura e la correlata
individuazione dell'attività, concreta si ripete, da svolgere, ruoli
riconducibili entrambi all'utilizzatore. Ciò considerato, allora, è l'articolo
20 a dirimere, e conseguentemente l'articolo 26 ne è una sottolineatura,
riproducendo in ultima analisi il paradigma dell'articolo 2049 c.c. la cui
applicabilità discende, implicita ma inequivoca, già dall'articolo 20: il che
spiega l?assenza di una norma analoga all'articolo 26 nel testo normativo
precedente e in quello del 2015, per il resto sostanzialmente sovrapponibili
nella configurazione della fattispecie.
Se il fatto illecito danneggia invece l'utilizzatore, è ovvio che l'utilizzatore
non può rivestire sia il ruolo del danneggiato sia il ruolo del responsabile ex
articolo 2049 c.c. Il che però non significa che la responsabilità
extracontrattuale di cui all'articolo 2049 c.c. si sposti sul somministratore,
poiché il fatto illecito viene compiuto esattamente come nel caso precedente:
nell'ambito dell'inserimento concreto che l'utilizzatore ha determinato per il
lavoratore nella sua struttura organizzativa, assegnando al lavoratore le
direttive specifiche. L'articolo 2049, pertanto, non può dunque in tal caso
ricadere su nessuno dei due imprenditori: né sul danneggiato utilizzatore, né
sul somministratore anche se è il datore di lavoro, in quanto la "missione"
trasferisce l'attività lavorativa, come oggetto di predisposizione prima ancora
che di materiale fruizione, all'utilizzatore; e l'istruzione preventiva che il
somministratore deve irrogare al suo dipendente non può far venir meno gli
effetti della conformazione concreta del lavoro che viene effettuata
dall'utilizzatore.
4.8 L'utilizzatore è divenuto, pertanto, il predisponente che inserisce nella
struttura lavorativa il lavoratore. E ciò discende dal contratto di
somministrazione, cosi come è legalmente configurato laddove si assegna
all'utilizzatore l'interesse nel senso di elezione/identificazione
dell'incombenza lavorativa, nonché la direzione e il controllo della stessa.
Attribuire la responsabilità a chi non ha, finché e perché il lavoratore è "in
missione", potere alcuno di direzione e di controllo sulla sua attività non è
compatibile con l'articolo 2049 c.c., che reca insito il precetto del padrone o
committente concretizzante il lavoro da svolgere come fonte di responsabilità di
chi lo impone per l'attività di chi lo riceve. Chi infatti adibisce il
lavoratore all'esercizio delle concrete incombenze è, per legge, l'utilizzatore.
L'attribuzione di responsabilità al somministratore verrebbe a cagionare una
sorta di regressione della vicenda giuridica esecutiva, riportando il lavoratore
allo stadio in cui, non essendo ancora stato inviato in missione
all'utilizzatore, è comunque sotto il controllo e la direzione del datore di
lavoro ai fini della istruzione generale per l'attività che però sarà in seguito
concretizzata dalle direttive dell'utilizzatore. Il fatto poi che il datore di
lavoro, rimanendo tale anche dopo la "missione" del lavoratore, possa (se ne
sussistono i requisiti) licenziare il lavoratore stesso o quantomeno sostituirlo
con un altro nella "missione" non è sufficiente ad alterare - se non
neutralizzare quanto alle sue conseguenze - il contenuto del potere direttivo
dell'utilizzatore sul lavoratore che entra nella sua organizzazione
imprenditoriale. Sostenere una responsabilità di chi lo ha inviato significa
esternare l'attività del lavoratore dalla struttura dell'utilizzatore, laddove
nella figura della somministrazione tale attività, per adempiere l'obbligo dello
stesso somministratore nei confronti dell'utilizzatore, deve essere espletata
esclusivamente nell'ambito della struttura organizzativa dell'utilizzatore e
sotto le direttive e i controlli di quest'ultimo.
4.9 In conclusione, l'inserimento del lavoratore nella struttura imprenditoriale
dell'utilizzatore giunge ad aprire la fattispecie al paradigma generale della
responsabilità extracontrattuale dei "padroni" e dei committenti. L'articolo
2049 c.c., infatti, non fonda la responsabilità sulla formale dipendenza di chi
compie il fatto illecito rispetto al soggetto "a monte", cioè investito della
responsabilità oggettiva da tale norma prevista, bensì, a ben guardare,
dall'inserimento del soggetto che compie il fatto illecito nell'attività, lato
sensu, posta in essere dal responsabile oggettivo; tant'è vero che la
responsabilità oggettiva viene meno qualora il fatto illecito non si radica
sulla cosiddetta occasionalità necessaria, che altro non è che l'inserimento,
appunto, nell'attività predisposta dal "padrone" o "committente", rectius
predisponente, cioè da chi ha concretamente organizzato in modo di avvalersi
dell'opera del terzo.
Questo fondamento di predisposizione (sovente ricondotto al cuius commoda eius
incommoda, pur essendo maggiormente appropriato il riferimento ai costi/rischi
di una utilitas, presupponendo l'articolo 2049 attività, piuttosto che
godimento), ovvero inserimento in un'attività propria del responsabile, quale
origine della responsabilità di cui all'articolo 2049 c.c. non è certo in
discussione nella consolidata interpretazione dedicata da questa Suprema Corte a
tale fattispecie di responsabilità oggettiva. Tra gli ultimi arresti, adesivi al
solido orientamento e che si richiamano quindi in questa sede quali meri esempi,
si è affermato che nel paradigma dell'articolo 2049 c.c. "il soggetto che,
nell'espletamento della propria attività, si avvale dell'opera di terzi assume
il rischio connaturato alla loro utilizzazione e, pertanto, risponde anche dei
fatti dolosi o colposi di costoro, ancorché non siano alle proprie dipendenze"
(Cass. sez. 3, ord. 12 ottobre 2018 n. 25373), ribadendosi altresì il criterio
della occasionalità necessaria che circoscrive il rischio (così viene massimata
l'ancor più recente Cass. sez. 3, 14 febbraio 2019 n. 4298: "Il soggetto che,
nell'espletamento della propria attività, si avvale dell'opera di terzi,
ancorché non alle proprie dipendenze, assume il rischio connaturato alla loro
utilizzazione nell'attuazione della propria obbligazione e, pertanto, risponde
direttamente di tutte le ingerenze dannose, dolose o colpose, che a costoro,
sulla base di un nesso di occasionalità necessaria, siano state rese possibili
in virtù della posizione conferita nell'adempimento deH'obbligazione medesima
rispetto al danneggiato e che integrano il "rischio specifico" assunto dai
debitore, fondando tale responsabilità sul principio "cuius commoda eius et
incommoda".").
4.10 Viene così ricondotta la posizione dell'utilizzatore al generale paradigma
dell'articolo 2049 c.c., tramite la norma come si è visto presente in tutte le
normative snodatesi nel tempo perché fondante la fattispecie in ordine alle
modalità di utilizzazione (interesse, direzione e controllo), norma che il
legislatore ha ritenuto di confermare introducendo, nel primo testo normativo
che ha qualificato tale fattispecie come una somministrazione - d.lgs. 276/2003
- una espressa previsione di responsabilità dell'utilizzatore verso i terzi:
l'articolo 26. Si tratta, come già si rilevava, di una sorta di interpretazione
autentica dell?applicabilità del paradigma di cui all'articolo 2049 c.c., e non,
al contrario, di una limitazione nell'ambito del paradigma. Convalida il
suddetto senso meramente chiarificatorio dell'articolo 26 l'assenza di una norma
analoga nel successivo testo normativo dedicato alla disciplina del contratto di
somministrazione di lavoro. Il fatto che il legislatore non abbia più inserito
nel d.lgs. 81/2015 una previsione di tal genere attesta proprio che si trattava
di una norma non conformante il tipo di contratto, ovvero non incidente sul suo
contenuto legale, bensì un mero rinforzo dell'inserimento nel sistema,
presumibilmente ritenuto utile in quanto coevo alla nuova qualificazione
semantica del contratto tipico.
E dunque, qualora il lavoratore sia in missione, la responsabilità ex articolo
2049 c.c. grava sull'utilizzatore, cioè sul soggetto che detta missione ha
concretizzato inserendo il lavoratore nella sua organizzazione imprenditoriale,
ovvero incastonandolo nel suo interesse nel senso di esigenza organizzativa,
nella sua direzione e nel suo controllo, così da integrare l'occasionalità
necessaria sottesa a siffatta responsabilità. Interesse, direzione e controllo
costituiscono una osmotica terna che identifica, in ultima analisi, il contenuto
dell'adibizione del lavoratore, cui si rapporta l'articolo 2049 c.c.
4.11 La peculiarità del contratto di somministrazione di lavoro risiede,
d'altronde, nel fatto che la scelta del soggetto adibito dal responsabile ex
articolo 2049 c.c. è operata da un altro, il somministratore. Peraltro, ciò
avviene in forza di un contratto, legalmente tipico, tra il somministratore e
colui che poi adibisce il soggetto scelto dal somministratore alla sua
organizzazione produttiva. È evidente, quindi, che l'utilizzatore, per
premunirsi dagli effetti pregiudizievoli della condotta dell'adibito gode dello
strumento sinallagmatico, ben potendo concordare con controparte clausole di
responsabilità contrattuale del somministratore nei confronti dell'utilizzatore
per tale condotta, sia nel caso in cui questa cagioni danni all'utilizzatore,
sia in termini di ricaduta/rivalsa di quanto l'utilizzatore si trovi a dover
versare a terzi a titolo risarcitorio. Il legislatore, invero, non inibisce
clausole siffatte, naturalmente controbilanciabili con l'entità del
corrispettivo spettante al somministratore o con altri suoi vantaggi, secondo le
usuali modalità di sintonizzazione nel sinallagma negoziale dei contrapposti
interessi dei contraenti.
In conclusione, il motivo non risulta fondato, non potendo il somministratore
essere responsabile ai sensi dell'articolo 2049 c.c. nei confronti
dell'utilizzatore per fatti illeciti compiuti dal lavoratore nell'ambito della
missione.
5.1 Il secondo motivo - proposto in subordine al primo, come si è visto, e
pertanto ora vagliabile - censura la sentenza impugnata in riferimento
all'articolo 91 c.p.c., in sostanza per non avere il giudice d'appello tenuto
conto dei distinti rapporti processuali sussistenti, condannando l'appellante -
attuale ricorrente - a rifondere le spese anche alla parte chiamata in garanzia,
nonostante la domanda di garanzia proposta dal chiamante fosse palesemente
infondata. Si invoca la giurisprudenza di questa Suprema Corte che esclude in
caso di manifesta infondatezza della domanda da cui è sorto un rapporto
processualmente accessorio la condanna alle spese di chi ha instaurato il
rapporto processuale principale.
5.2 Effettivamente, la condanna di chi instaura il processo creando con la prima
in jus vocatio il rapporto principale, sul quale poi si innestino rapporti
processuali ulteriori, discende da un principio di causazione: il processo viene
attivato dall'attore, appunto, del rapporto processuale da cui sono derivati i
rapporti ulteriori. E la causazione è un principio non del tutto coincidente con
quello di soccombenza: pertanto, chi ha promosso il rapporto principale viene
condannato a rifondere le spese anche alle parti del processo rispetto alle
quali non ha rapporto, ergo non ha soccombenza. Eppure, instaurando il giudizio,
l'attore principale processualmente causa le iniziative difensive adottate dalla
controparte del suo rapporto, incluse logicamente pure le espansioni del
giudizio suscitate con le chiamate in causa.
Il principio della causazione da sempre ha affiancato quello della soccombenza
come criterio per individuare chi deve rifondere le spese; tuttavia è stato,
parimenti, sempre temperato dalla valutazione della sussistenza o meno di
causazione concreta nella complessiva regiudicanda. Nel caso, infatti, in cui la
difesa attuata dal convenuto sotto forma di chiamata in causa è eccentrica
rispetto all'oggetto della controversia o comunque manifestamente priva di
fondatezza, la giurisprudenza di questa Suprema Corte ha negato l'espansione
della responsabilità, ai fini della rifusione delle spese, del soggetto che ha
attivato il rapporto principale, preservando in tale ipotesi autonomia al
rapporto instauratosi tra convenuto/chiamante e terzo chiamato per non essere
realmente accessorio quest'ultimo rapporto a quello che ha originariamente
acceso il processo, essendo stato invece posto in essere mediante un impulso
processuale radicalmente privo di pertinenza/fondatezza, id est arbitrario. Il
che elide qualunque connessione, anche indiretta, tra la causazione del rapporto
principale e la causazione del rapporto ulteriore, solo apparentemente
accessorio, che non è in realtà riconducibile alla difesa del convenuto rispetto
all'iniziativa principale, fuoriuscendo dunque dal paradigma della causazione,
il quale non può pertanto supplire con i suoi effetti all'assenza di una
relazione di soccombenza.
Così, anche tra i recenti arresti massimati, si è affermato, proprio a proposito
della chiamata in garanzia di un terzo effettuata dal convenuto del rapporto
processuale principale, che "la palese infondatezza della domanda di garanzia
proposta dal convenuto nei confronti del terzo chiamato comporta l'applicabilità
del principio di soccombenza nel rapporto processuale instauratosi tra loro,
anche quando l'attore sia, a sua volta, soccombente nei confronti del convenuto
chiamante, atteso che quest'ultimo sarebbe stato soccombente nei confronti del
terzo anche in caso di esito diverso della causa principale" (così Cass. sez.
6-3, ord. 21 aprile 2017 n. 10070; e sulla stessa linea cfr. p. es. Cass. sez.
1, 14 maggio 2012 n. 7431, Cass. sez. 3, 8 aprile 2010 n. 8363, Cass. sez. 3, 10
giugno 2005 n. 12301 e Cass. sez. 3, 2 aprile 2004 n. 6514).
5.3 Nelle more, peraltro, è pervenuta Cass. sez.l, ord. 21 febbraio 2018 n.
4195, che ha optato di elidere l'espansione della responsabilità ai fini della
rifusione delle spese per causazione (e dunque si è posta ancor più a favore
della censura della ricorrente, che infatti l'ha invocata nella memoria), ed è
così massimata: "Le spese processuali sostenute dal terzo chiamato in causa da!
convenuto, che sia risultato totalmente vittorioso nella causa intentatagli
dall'attore, sono legittimamente poste, in base al criterio della soccombenza, a
carico del chiamante, la cui domanda di garanzia o di manleva sia stata
giudicata infondata. (Nella fattispecie, la Corte ha chiarito che la domanda di
manleva, spiegata dal convenuto con la chiamata in causa di un terzo, non
necessariamente deve essere valutata "manifestamente infondata" o "palesemente
arbitraria" ai fini della condanna del chiamante ai rimborso delle spese
processuali sostenute dai chiamato).".
Nella motivazione, in effetti, l'arresto definisce "risalente orientamento di
questa Corte" ritenere che "la "palese" infondatezza della domanda di garanzia
proposta dal convenuto nei confronti del terzo chiamato comporta l'applicabilità
del principio di soccombenza nel rapporto processuale instauratosi tra loro,
anche quando l'attore sia, a sua volta, soccombente nei confronti del convenuto
chiamante, atteso che quest'ultimo sarebbe stato soccombente nei confronti del
terzo anche in caso di esito diverso della causa principale", sostenendosi che,
"sul piano causale, una precisa concatenazione legherebbe la domanda dell'attore
alla costituzione del convenuto e questa alla chiamata in causa del terzo, dal
momento che detta chiamata certamente non avrebbe avuto luogo ... in difetto
dell'originaria citazione"; il nesso causale sarebbe comunque interrotto da una
chiamata priva ictu oculi di giustificazione sostanziale e processuale per
palese arbitrarietà.
La pronuncia ritiene "di dovere dare continuità al prescritto indirizzo, con la
necessaria precisazione che nel caso di integrale rigetto della domanda
dell'attore, con conseguente assorbimento di quella di garanzia avanzata dal
convenuto nei confronti del terzo chiamato, è la mera applicazione del principio
della soccombenza (qui evidentemente soltanto "virtuale") a regolare il rapporto
tra chiamante e chiamato in relazione alle spese processuali. Ne deriva, allora,
che le spese processuali sostenute dal chiamato potranno essere sempre poste a
carico del chiamante, una volta che il giudice abbia valutato l'Infondatezza
della chiamata in causa del terzo, senza necessità che un siffatto accertamento
- di natura necessariamente incidentale - risulti rafforzato da ulteriori
requisiti (in termini di "manifesta infondatezza" ovvero di " palese
arbitrarietà") che, per un verso, mostrano sempre profili di sicura opinabilità
e, per altro verso, non risultano espressamente richiesti dall'art. 91 c.p.c. al
fine di regolare le spese processuali in caso di soccombenza".
5.4 Ritiene questo collegio di non condividere una simile impostazione che, in
effetti, non dà continuità all'indirizzo "tradizionale", bensì tramite quella
che definisce una "precisazione" se ne discosta in modo evidente.
Infatti, il principio cui l'arresto si rapporta per dirimere la spartizione
delle spese non è più la causazione del processo, bensì - e soltanto - la
soccombenza. La disciplina delle spese processuali, invece, come già si
accennava, nella giurisprudenza di questa Suprema Corte ha sempre affiancato i
due principi, così da temperare gli effetti della soccombenza inibendo una
astratta - e quindi formalistica - separazione della pluralità dei rapporti
processuali sgorgati in un unico giudizio.
5.5 Seguendo, infatti, esclusivamente il principio di soccombenza, ogni rapporto
processuale verrebbe da questo regolato, il che, a ben guardare, comprimerebbe
l'esercizio del diritto di difesa di chi è convenuto nel rapporto processuale a
monte di esso. Nel momento in cui chi è oggetto di in jus vocatio plasma la sua
concreta difesa, non è detto affatto che egli sia, o possa agevolmente essere, a
conoscenza degli esiti della difesa stessa, i quali saranno, in verità, l'esito
del giudizio. E se ciò vale rispetto alle difese dispiegate nello stesso
rapporto in cui è stato citato (domande, eccezioni, mere difese), non può non
valere anche per quelle attuate mediante l'innesto di un ulteriore rapporto
processuale: questo infatti costituisce difesa, pur se esterna rispetto al
rapporto processuale principale, della sfera giuridica del soggetto convenuto da
chi ha instaurato ab origine il processo, cioè ha adito la giurisdizione. E
dunque, sussiste una causazione in radice, dovendosi pertanto porre a carico di
chi l'ha posta in essere il rischio dell'esito delle difese della parte da lui
convenuta.
La valorizzazione della causazione impedisce allora la trasformazione del
processo dotato di una pluralità di rapporti in una serie di compartimenti
stagni, per cui, anche a fronte di una piena vittoria nei confronti dell'attore
del rapporto principale, il convenuto in quest'ultimo debba comunque e sempre
rifondere le spese di chi ha egli stesso convenuto in un rapporto avviato per
difendersi. Il che significa, in contrasto con i principi fondamentali del
processo, che chi ha ragione esce comunque con una deminutio della sua sfera
economico-giuridica dalla contesa processuale, l'esercizio del diritto di difesa
integrando in una perdita, a prescindere dal fatto che egli potesse o meno ciò
prevedere.
5.6 II diritto di difesa, al contrario, per la sua natura intensamente
fondamentale deve essere tutelato nella massima misura consentita dal
controbilanciamento con gli altri valori giuridici coinvolti dal paradigma del
processo, per cui le conseguenze del suo esercizio, se effettuato da chi ha
ragione, devono cadere su chi lo ha citato avendo torto.
I rapporti processuali pertanto, sotto il profilo del recupero del costo delle
difese dispiegatevi, sono tendenzialmente osmotici, attingendo appunto al
criterio della causazione della giurisdizionalizzazione della lite. Ma proprio
perché la causazione non sussiste nel caso in cui l?espansione della contesa
derivi da un'iniziativa palesemente infondata/arbitraria - id est radicalmente
eccentrica rispetto a quel che è stato causato dall'attore del rapporto
principale - la giurisprudenza di questa Suprema Corte, cui questo collegio
intende appunto aderire, esclude in tal caso che le spese del rapporto
arbitrariamente "legato" dal convenuto al rapporto principale gravino
sull'attore di quest'ultimo.
Qualora, infatti, il convenuto possa agevolmente e completamente prevedere
l'infondatezza della chiamata, ovvero l'inutilità di essa come difesa in senso
lato rispetto alla sua posizione nei confronti di chi ha causato nei suoi
confronti il processo, non può definirsi sussistente il nesso causale tra
l'attività dell'attore principale e quella del convenuto quale chiamante.
Ovvero, l'abusivo esercizio del diritto di difesa recide la causazione,
riconducendo al paradigma della soccombenza in via esclusiva.
5.7 Che poi la valutazione della palese infondatezza/arbitrarietà sia una
valutazione virtuale non significa che essa sia ontologicamente affetta da
"profili di sicura opinabilità": in effetti, proprio ciò che è manifesto ben
difficilmente è opinabile.
La valutazione virtuale, d'altronde, è lo strumento che viene utilizzato per
decidere in ordine alle spese processuali anche nell'ipotesi di cessazione della
materia del contendere, e non include, pertanto, alcuna peculiare criticità
avvalersene. Ma soprattutto, come già si è rilevato, il valore che deve
prevalere in massima misura è il diritto di difesa, che non può essere "frenato"
con l'addossamento di rischi di deminutio, cedendo soltanto - ovvero
riscontrandosene l'abuso - dinanzi quel che, in sostanza, corrisponde ad una
condotta processuale temeraria.
5.8 Deve altresì rilevarsi, peraltro, che la valutazione della sussistenza o
meno di una condotta processuale temeraria nella fattispecie in esame, id est
della proposizione di una chiamata in causa su fondamenti manifestamente
inconsistenti, è una valutazione di merito del contenuto della domanda proposta
dal convenuto/chiamante. Spetta pertanto al giudice di merito compierla e,
ovviamente, esternarla con una motivazione costituzionalmente sufficiente.
Nel caso in esame, invero, ciò è stato adempiuto dalla corte territoriale, e il
motivo, in ultima analisi, persegue dal giudice di legittimità una revisione nel
merito.
La corte territoriale, dopo aver correttamente richiamato un arresto
dell'orientamento tradizionale e qui ribadito (Cass. 7431/2012, cit.), vaglia la
sussistenza o meno di arbitrarietà nella chiamata in causa della compagnia
assicurativa da parte del somministratore, specificamente riferendosi anche
all'articolo 16, lettera b), delle Condizioni generali di assicurazione - su cui
era stato fondato il relativo motivo d'appello e su cui viene fondata, appunto
inammissibilmente, la censura in esame -, per concludere nel senso
dell'esistenza di incertezze atte a escludere l'arbitrarietà (motivazione della
sentenza impugnata, pagine 6-7). Il motivo, dunque, risulta inammissibile.
6. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, la peculiarità della
tematica introdotta con il primo motivo - sinora scarsamente affrontata dalla
giurisprudenza di legittimità - giustificando la compensazione delle spese
processuali.
Sussistono invece ex articolo 13, comma 1 quater, d.p.r. 115/2012 i presupposti
per il versamento da parte della ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1
bis dello stesso articolo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso compensando le spese processuali.
Ai sensi dell'articolo 13, comma 1 quater, d.p.r. 115/2002 dà atto della
sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente,
dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per
il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma il 9 ottobre 2019
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