Cassazione Civile, Sez. Lav., n. 21662 - Presidente Bronzini – Relatore De Gregorio
Cassazione Civile, Sez. Lav., 23 agosto 2019, n. 21662
Presidente Bronzini ? Relatore De Gregorio
FattoDiritto
LA CORTE, esaminati gli atti e sentito il consigliere relatore, OSSERVA quanto
segue. La Corte d?Appello di Venezia con sentenza del sei febbraio - dieci
maggio 2014, in parziale riforma dell?impugnata pronuncia, emessa dal locale
giudice del lavoro -che aveva rigettato le domande degli attori, volte ad
ottenere il risarcimento dei danni commisurati al costo del lavaggio degli
indumenti da lavoro, forniti dall?azienda, con asserite funzioni di dispositivi
di protezione individuale (D.P.I., da qui in avanti brevemente indicati come DPI)-
accoglieva per alcuni attori le domande e limitatamente a determinati archi
temporali, con la condanna della convenuta appellata S.p.a. VERITAS al pagamento
in favore dei predetti della somma mensile di 15,00 Euro, oltre accessori di
legge, mentre per il resto le domande venivano respinte, sia per l?intervenuta
prescrizione di tutti i diritti azionati, riferiti al periodo anteriore al
febbraio dell?anno 1991, sia perché doveva escludersi il carattere di DPI degli
indumenti forniti agli altri appellanti. La Corte veneziana, inoltre, rigettava
anche il motivo di appello incidentale, con il quale la società aveva reiterato
l?eccezione di duplice giudicato di cui alle precedenti sentenze nn. 396/2002 e
660/2004, pronunciate dal Tribune della stressa città lagunare, poiché tali
pronunce si erano limitate a dichiarare la nullità dei rispettivi atti
introduttivi dei due giudizi per difetto della editctio actionis, donde la loro
inidoneità alla formazione di giudicato in senso sostanziale rispetto alle
successive domande proposte con separato ulteriore ricorso, respinto poi nel
merito dalla sentenza n. 39 in data 20 gennaio / 31 marzo 2010, in seguito
appellata e parzialmente quindi riformata dalla pronuncia de qua.
Per quanto qui più direttamente interessa, la Corte territoriale aveva disposto
c.t.u. per stabilire le mansioni dei vari singoli appellanti al fine di
accertare il concreto rischio . La consulenza, secondo la sentenza d?appello,
accertava in base alla prodotta documentazione, le specifiche mansioni inerenti
a ciascun appellante, e rilevava che in generale le tute in dotazione non erano
destinate specificamente a proteggere la salute e la sicurezza dei lavoratori,
avendo soltanto lo scopo di tutelarli da un rischio generico di imbrattamento,
con l?eccezione tuttavia per l?abbigliamento fornito agli operatori addetti ad
interventi sulle tubazioni in cemento-amianto e a quelli adibiti dal 1997 alla
rete con indumenti ad alta visibilità (eccezioni non riguardanti, invece, i
lavoratori in parte qua rimasti soccombenti). Di conseguenza, recepite le
risultanze della c.t.u., secondo la Corte di merito solo per questi casi,
eccezionali, era ipotizzabile la rilevanza di pertinenti DPI, con conseguente
fondatezza della pretesa risarcitoria, da inadempimento contrattuale, per il
mancato lavaggio nei limiti temporali considerati. Per gli altri lavoratori,
invece, le domande andavano rigettate.
Avverso la sentenza d?appello hanno quindi proposto ricorso per cassazione AN.Al.
egli altri 41 lavoratori nominati in epigrafe, come da atto in data sei novembre
2014 (notificato alla destinataria a mezzo posta il successivo giorno sette),
affidato ad un solo articolato motivo, cui ha resistito VERITAS S.p.a. mediante
controricorso del 16 / 17 dicembre 2014), in seguito illustrato da memoria;
CONSIDERATO che:
con l?anzidetto motivo i ricorrenti hanno denunciato violazione e falsa
applicazione del D.Lgs. n. 626 del 1994, artt. 40 - 43, e del D.P.R. n. 547 del
1955, artt. 377 - 379, in relazione all?art. 360 c.p.c., n. 3, nonché omesso
esame in ordine ad alcuni aspetti della c.t.u., in relazione all?art. 360 c.p.c.,
n. 5, censurando la parte dell?impugnata sentenza, che non aveva esteso il
diritto al risarcimento dei costi, sostenuti per il lavaggio degli indumenti
utilizzati da essi lavoratori sino al 31 luglio 2000, a tutti gli interessati,
essendo stato limitato ai soli addetti alla rete, che eseguivano interventi
sulle tubazioni di cemento-amianto, e agli addetti che utilizzavano indumenti ad
alta visibilità e operavano al di fuori del centro storico. Infatti, secondo i
ricorrenti, in base alla succitata normativa di cui al D.Lgs. n. 626 e al D.P.R.
n. 547, qualsiasi indumento utilizzato dai lavoratori, per il solo fatto di
essere indossato durante un?attività a rischio di contatto con agenti patogeni,
dovrebbe costituire DPI a prescindere dalle caratteristiche e dalla qualità di
protezione intrinseche dell?indumento stesso. La stessa Corte d?Appello aveva
chiesto al c.t.u. di valutare se le mansioni svolte fossero in grado di esporre
i lavoratori istanti ad un rischio specifico di compromissione della salute,
tenendo conto dell?abbigliamento di lavoro in considerazione delle mansioni
svolte. Il consulente incaricato, prof. B. , aveva risposto, quindi al quesito,
nel senso, secondo i ricorrenti, che essi risultavano esposti a differenti e
spesso contemporanei tipi di rischio riguardo ai quali avevano in dotazione
diversi strumenti di protezione e che con questi strumenti avevano anche in
dotazione le tute da lavoro. Aveva, pertanto, errato la Corte territoriale,
laddove aveva ritenuto che l?abbigliamento da lavoro in dotazione alle diverse
mansioni non era destinato specificamente a proteggere la salute e la sicurezza
dei lavoratori, ma che aveva semplicemente lo scopo di proteggere da un rischio
generico d?imbrattamento. Ma proprio attraverso l?imbrattamento i lavoratori
correvano il più alto rischio di contrarre malattie: gli indumenti, pertanto,
sebbene non aventi la funzione specifica di protezione della salute, di fatto la
svolgevano perché erano gli unici forniti dal datore di lavoro. Dunque,
necessariamente le tute da lavoro non potevano non avere funzione protettiva,
oltre a quella distintiva. Gli indumenti forniti, quindi, potevano risultare non
adeguati a fornire adeguata tutela, ma dovevano essere senza dubbio considerati
come attrezzature destinate ad essere indossate e tenute dal lavoratore allo
scopo di proteggerlo contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la
sicurezza o la salute durante il lavoro. Non si trattava di un rischio
ipotetico, dettato dalle particolari tipologie di una giornata lavorativa, ma di
costante quotidianità, stante il contatto non solo con tubazioni di cemento /
amianto, ma anche con agenti imbrattanti patogeni di varia natura. Il contatto
con agenti imbrattanti, pertanto, secondo i ricorrenti, era costante e non
limitato ai momenti in cui venivano indossati i DPI. Era erroneo il ragionamento
volto a sostenere che un indumento, solo perché destinato a comune e generica
funzione protettiva, dovesse essere classificato come ordinario indumento da
lavoro e perciò cessasse di costituire dispositivo di protezione individuale,
con conseguente onere di tenuta e lavaggio a carico di parte datoriale.
Diversamente opinando, si giungerebbe a conclusioni inaccettabili, che
vanificherebbero la portata della norma. Al datore di lavoro, infatti,
basterebbe soltanto fornire indumenti ordinari affinché gli stessi, inidonei a
fornire la protezione necessaria, possano considerarsi esclusi dal novero dei
dispositivi individuali di sicurezza, con conseguente esonero del datore di
lavoro dal connesso obbligo di provvedere al lavaggio dei medesimi;
le anzidette doglianze vanno disattese in base alle seguenti ragioni, tenuto
conto soprattutto di quanto accertato e valutato, con adeguate argomentazioni,
dalla competente Corte di merito, peraltro senza errori in punto di diritto,
come pure riconosciuto in effetti anche a pagine 19 / 20 dello stesso ricorso
(Correttamente la Corte d?Appello di Venezia ha preso le mosse dal D.Lgs. n. 626
del 1994, art. 40, il quale al comma 1 recita... Il giudice di secondo grado ha
anche giustamente evidenziato che il legislatore al comma 2 esclude
esplicitamente dai dispositivi di protezione individuale "gli indumenti... non
specificamente destinati a proteggere la sicurezza e la salute dei lavoratori"
con la conseguente necessità di accertare se l?abbigliamento da lavoro in
dotazione fosse destinato a proteggere i lavoratori da un rischio specifico di
compromissione della salute...avendo riguardo alle mansioni lavorative svolte.
Ciò in quanto, solo gli indumenti con tale finalità comportano l?obbligo per il
datore di lavoro di provvedere alla manutenzione e all?igiene D.Lgs. n. 626 del
1994, ex art. 43... Sulla base di tali premesse la Corte d?Appello ha disposto
una c. t. u. volta ad accertare se le mansioni svolte dai singoli lavoratori
appellanti siano state tali da esporli ad un rischio specifico di
contaminazione...
La valutazione circa l?idoneità o meno degli indumenti a costituire dispositivi
di protezione sembra seguire il seguente iter logico:... Una volta stabilito che
per il tipo di mansione svolta il lavoratore è esposto ad un rischio di
contaminazione, la conseguenza naturale non può che essere che l?indumento
utilizzato nell?esecuzione della predetta mansione deve essere considerato alla
stregua di un dispositivo di protezione individuale);
peraltro, il ricorso appare carente nelle enunciazioni di quanto acquisito in
istruttoria (non risultano riprodotti i documenti e i verbali delle prove
assunte nei distinti procedimenti nn. 243/04 e 185/05, solo menzionati a pag. 11
del ricorso, ed analogamente dicasi per il verbale di accordo sindacale in data
21 aprile 1997, appena citato a pag. 13 dello stesso ricorso per cassazione,
parimenti riguardo ai motivi di appello, anch?essi non riprodotti, ma
sommariamente riassunti, laddove in effetti analogamente non sono stati
riportati i 32 capitoli di prova, volti a dimostrare le mansioni svolte dai
lavoratori ed i compiti che li ponevano quotidianamente in contatto con gli
agenti patogeni. Nemmeno è stata integralmente riprodotta la relazione di c.t.u.
disposta ed espletata in appello, della quale si lamenta però anche l?omesso
esame di alcuni aspetti ex art. 360 c.p.c., n. 5), con conseguenti
inammissibilità a norma dell?art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 6;
inoltre, non risulta alcuna precisa confutazione in diritto circa eventuali
specifici errori in proposito commessi dalla Corte distrettuale nell?esaminare
la portata dell?anzidetta normativa, la cui violazione appare dunque
genericamente dedotta dai ricorrenti, i quali invero non hanno precisato alcun
errore d?interpretazione, così come nemmeno alcuna palese irrazionalità o
illogicità risulta specificamente denunciata dai ricorrenti in ordine al
ragionamento decisorio seguito dalla Corte di merito, la quale anzi si è
preoccupata di accertare fatti e mansioni con apposita c.t.u., all?esito della
quale le domande sono state motivatamente e distintamente accolte, o rigettate,
con riferimento alle singole posizioni individuali ed in relazione ai diversi
rispettivi periodi di tempo (però sulla base e nei limiti degli elementi
probatori offerti dalle parti e perciò senza svolgere attività esplorative, cfr.
pag. 6 della sentenza qui impugnata, mentre nella successiva pagina 7 si
precisava che le mansioni svolte da ciascun appellante risultavano dal documento
n. 10 da loro già prodotto in primo grado e dal documento n. 5 depositato dalla
società convenuta resistente, sicché il c.t.u. aveva potuto individuare e
analizzare le diverse posizioni lavorative in relazione alle varie mansioni
svolte da ogni attore, distinguendo gli operatori di rete, gli addetti
all?officina, quelli al magazzino ed ancora i lavoratori degli impianti di acqua
potabile. Di conseguenza, il c.t.u. aveva svolto indagine esauriente con metodo
scientificamente corretto, giungendo a conclusioni che non erano state "in alcun
modo contestate dalle parti", nel senso che l?abbigliamento da lavoro in
dotazione agli addetti alle diverse mansioni non era destinato a proteggere
specificamente la salute e la sicurezza dei lavoratori, avendo semplicemente lo
scopo di proteggere da un rischio generico di imbrattamento, poiché non aveva
alcuna capacità di protezione dagli agenti chimici o biologici in caso di
contaminazione accidentale, non potendo costituire barriera efficace contro tali
agenti pericolosi. Il consulente, tuttavia, aveva evidenziato che facevano
eccezione e dovevano essere considerati alla stregua di DPI le tute utilizzate
da coloro che eseguivano interventi sulle tubazioni in cemento-amianto, perciò
dai lavorati che non operavano nel centro storico di Venezia -dove non vi erano
tubazioni di tale materiale- fino all?aprile 1992, quando vennero fornite tute
"usa e getta" per l?esecuzione di tali operazioni. Il c.t.u., altresì, aveva
evidenziato che facevano eccezione e dovevano, quindi, essere considerati DPI
gli indumenti ad alta visibilità forniti agli addetti alla rete dal 1997,
trattandosi di indumenti fosforescenti con il compito specifico di proteggere
dal rischio d?investimento stradale per gli operanti sulla rete, ma con
esclusione di quelli assegnati al centro storico di Venezia, dove non vi era
traffico veicolare, peraltro fino al settembre dell?anno 2000, poiché in data
29-09-2000 -in base a quanto pure si legge a pag. 9 della sentenza de qua- era
stato concluso accordo di lavaggio degli indumenti, come attestato dalla
medesima società, di guisa che la domanda doveva intendersi come riferita
all?intero periodo in cui era stato eseguito il lavaggio casalingo, sicché i
predetti lavoratori avevano diritto al risarcimento del danno per
l?inadempimento, contrattuale di parte datoriale, in ordine all?obbligo di
provvedere alla manutenzione dei DPI);
d?altro canto, alle pagine 16 e 17 del ricorso per cassazione, sono riportate le
seguenti conclusioni del c.t.u., che nemmeno appaiono incompatibili, secondo la
citata sentenza, con quanto sopra riferito: "le mansioni svolte dagli
appellanti,..., sono state tali da esporre i lavoratori ad un rischio specifico
di compromissione della salute ed in particolare proteggersi dai quali
disponevano di specifici dispositivi di protezione individuale. L?abbigliamento
in dotazione (le tute da lavoro) non era invece destinato specificamente a
proteggere la salute e la sicurezza dei lavoratori, avendo semplicemente lo
scopo di proteggere da un rischio generico di imbrattamento in quanto per sua
natura non poteva costituire una barriera efficace; fanno però eccezione al
riguardo gli indumenti supplementari ad alta visibilità forniti agli addetti a
partire dal 1997... e le tute da lavoro utilizzate da coloro che eseguivano non
nel centro storico di Venezia interventi sulle tubazioni in cemento - amianto
(fino a che dall?aprile 1992 sono state fornite per l?esecuzione di queste
operazioni "tute usa e getta"), che invece vanno considerati alla stregua di
dispositivi di protezione individuale";
pertanto, non residuano in questa sede di legittimità, spazi d?intervento per
sindacare quanto accertato e valutato in punto di fatto dalla Corte di merito,
che peraltro non risulta aver omesso nel suo esame circostanze utili e decisive,
rilevanti nei sensi di cui all?art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (secondo il testo
vigente, in relazione alla sentenza de qua risalente all?anno 2014), con
motivazione non inferiore al c.d. minimo costituzionale (nei sensi indicati da
Cass. sez. un. civ. nn. 8053 e 8054 del 2014 e successiva conforme
giurisprudenza di questa S.C.), immune inoltre da errori di diritto (in
proposito v. in part. Cass. lav. n. 2625 del 5/2/2014, secondo cui in tema di
tutela delle condizioni di igiene e sicurezza dei luoghi di lavoro, non
rientrano tra i dispositivi di protezione individuale, previsti dalla L. 19
settembre 1994, n. 626, art. 40, le tute, di stoffa o monouso, fornite dal
datore di lavoro, quando esse, per la loro consistenza, svolgono esclusivamente
la funzione di preservare gli abiti civili dalla ordinaria usura connessa
all?espletamento dell?attività lavorativa, e non anche quella - pur
astrattamente configurabile- di proteggere il lavoratore contro uno o più rischi
suscettibili di minacciarne la sicurezza o la salute durante il lavoro, sicché
rispetto ad esse non è configurabile, in mancanza di specifiche previsioni
contrattuali, un obbligo a carico del datore di lavoro di continua fornitura e
di sistematico lavaggio);
il ricorso, dunque, va rigettato, con conseguente condanna dei soccombenti al
rimborso delle relative spese, ricorrendo, inoltre, le condizioni di legge per
il versamento dell?ulteriore contributo unificato, atteso l?esito del tutto
negativo della proposta impugnazione.
P.Q.M.
la Corte RIGETTA il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle relative
spese, che liquida a favore della società controricorrente in complessivi Euro
6000,00 per compensi professionali ed in Euro 200,00 per esborsi, oltre spese
generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della
sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti,
dell?ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto
per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
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