Civile Ord. Sez. L Num. 17354 Anno 2019 Presidente: TRIA LUCIA Relatore: PONTERIO CARLA
Civile Ord. Sez. L Num. 17354 Anno 2019 Presidente: TRIA
LUCIA Relatore: PONTERIO CARLA Data pubblicazione: 27/06/2019
Rilevato che:
1. con sentenza n. 301 depositata il 3.1.18, la Corte d'appello di Cagliari, in
accoglimento dell'Impugnazione proposta da De Vizia Transfer s.p.a e in riforma
della sentenza di primo grado, ha respinto la domanda di C.A., operatore
ecologico autista, di condanna di parte datoriale al risarcimento dei danni da
inadempimento all'obbligo di lavaggio e manutenzione dei dispositivi di
protezione individuale (D.P.I.);
2. la Corte territoriale, richiamata la definizione di D.P.I. dettata dall'art.40,
comma 1, D.Lgs. n. 626 del 1994, ("qualsiasi attrezzatura destinata ad essere
indossata e tenuta dal lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più
rìschi suscettibili di minacciarne la sicurezza o la saluto durante il lavoro,
nonché ogni complemento o accessorio destinato a tale scopo"), ha premesso come
incombesse sul datore di lavoro, ai sensi dell'art. 4, comma 2, del decreto
legislativo citato e nell'ambito del documento di valutazione dei rischi (D.V.R.),
valutare i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori ed individuare "le
misure di prevenzione e di protezione e i dispositivi di protezione
individuale..."; ha ritenuto adeguata la valutazione operata dalla società nel
senso di escludere che gli indumenti costituissero dispositivi
antinfortunistici, sul rilievo che gli stessi, (maglie, pantaloni e giubbotti)
forniti dalla società ai dipendenti, non avessero specifiche caratteristiche
tecniche protettive;
3. premesso, quale fatto notorio, che la raccolta dei rifiuti esponga al
contatto con germi, in particolare attraverso le mani (per contatto con la bocca
o per la presenza di ferite) oppure per inalazione, la Corte d'appello ha
escluso che gli indumenti in questione potessero svolgere una funzione
protettiva ed ha ricondotto la fattispecie esaminata all'ipotesi prevista dal
comma 2, lett. a), del citato art. 40 ("non sono dispositivi di protezione
individuale gli indumenti di lavoro ordinari e le uniformi non specificamente
destinati a proteggere la sicurezza e la salute del lavoratore");
4. avverso tale sentenza il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione,
affidato a sei motivi, cui ha resistito con controricorso la società;
5. entrambe le parti hanno depositato memoria, ai sensi dell'art. 380 bis.l.
c.p.c.;
Considerato che:
6. col primo motivo di ricorso il lavoratore ha censurato la sentenza, ai sensi
dell'art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., per violazione e falsa applicazione del
D.L.gs. n. 626 del 1994 e dell'art. 216, T.U. n. 1265 del 1934, per aver escluso
che la De Vizia Transfer s.p.a. fosse classificabile come impresa insalubre di
prima classe;
7. col secondo motivo il ricorrente ha dedotto, ai sensi dell'art. 360, comma 1,
n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 c.c., 40, D.Lgs.
n. 626 del 1994; 1, comma 2, D.Lgs. n. 475 del 1992; 379 del D.P.R. n. 547 del
1955 e 43, comma 4, D.Lgs. n. 626 del 1994, per avere la sentenza impugnata
affermato che gli indumenti forniti ai lavoratori per lo svolgimento della
prestazione non avessero alcuna funzione protettiva e quindi non fossero
classificabili come D.P.I.;
8. col terzo motivo di ricorso il lavoratore ha denunciato violazione e falsa
applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonché omesso esame di un punto
decisivo della controversia, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., per
avere la Corte d'appello erroneamente escluso il rischio alla salute,
certificato dalle relazioni dell'AusI, cui era esposto il lavoratore per il
contatto con i rifiuti solidi urbani e per il lavaggio nella propria abitazione
degli indumenti usati durante l'attività lavorativa; ha richiamato il verbale
ispettivo del 4.8.2005 che aveva evidenziato l'esistenza, nel settore della
raccolta e dello stoccaggio dei rifiuti solidi urbani, di un rischio di
esposizione degli addetti ad agenti microbiologici, con particolare riferimento
al virus dell'epatite B (HBV), e con pericolo di contatto, specie per alcune
mansioni come quelle dei portasacchi, riguardante varie partì del corpo tra cui
mani, braccia, gambe;
9. col quarto motivo il ricorrente ha dedotto erronea valutazione degli artt. 4,
comma 2, e 42 del D.Lgs. n. 626 del 1994, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3
c.p.c., per avere la sentenza impugnata considerato attendibile il piano di
valutazione dei rischi eseguito dal datore di lavoro;
10. col quinto motivo di ricorso il lavoratore ha censurato la decisione per
violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 c.c., 4, D.Lgs. n. 626 del
1994; dell'art. 67, comma 2, lett. a) c.c.n.l. 30.4.2003, in relazione all'art.
360, comma 1 n. 3 c.p.c., per avere la Corte d'appello escluso che gli indumenti
da lavoro forniti ai dipendenti costituissero D.P.I. in quanto non menzionati
nel piano di valutazione rischi aziendale;
11. col sesto motivo di ricorso il lavoratore ha dedotto violazione e falsa
applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e dell'art. 2697 c.c., in relazione
all'art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., per omesso esame di un punto decisivo della
controversia ed, esattamente, per avere la Corte d'appello erroneamente
disatteso che tra gli indumenti forniti dall'azienda al lavoratore fossero
ricomprese le scarpe, i guanti e la pettina alta visibilità che nel D.V.R.
aziendale erano classificati D.P.I.;
12. il secondo, il terzo e il quinto motivo di ricorso, che si trattano in via
prioritaria ed unitariamente per ragioni di ordine logico, sono fondati nei
limiti di seguito esposti;
13. non è di ostacolo all'accoglimento del terzo motivo l'impropria invocazione
degli artt. 115 e 116 c.p.c., posto che, secondo il costante indirizzo di questa
Corte, ove si possa identificare il contenuto delle censure attraverso le
ragioni prospettate dal ricorrente, il profilo sostanziale dell'atto deve
prevalere su quello formale, sicché l'omessa o l'erronea indicazione degli
articoli di legge viene a perdere ogni rilevanza (Cass. n. 4923 del 1995; n. 302
del 1996; n. 1430 del 1999; n. 15713 del 2002) e, nella specie, dalle
argomentazioni poste a base delle censure risulta evidente la denuncia di
violazione dell'art. 2087 c.c. , con riguardo all'affermata esclusione del
rischio alla salute per i lavoratori di cui si tratta, in contrasto con quanto
affermato - pacificamente - nelle relazioni dell'Ausl in sede di ispezione;
14. il profilo di censura riferito all'art. 360, n. 5, c.p.c. (formulato nel
medesimo terzo motivo) è da considerare inammissibile perché il vizio
prospettato attiene alla qualificazione e valutazione giuridica di fatti e
quindi concerne parti della motivazione in diritto e non l'omesso esame di fatti
veri e propri, principali o secondari, come richiesto dal vigente art. 360, n.
5, c.p.c.;
15. ciò posto, deve essere, in primo luogo, ricordato che, ai sensi dell'art.
40, D.Lgs. n. 626 del 1994, recante attuazione delle 89/391/CEE, 89/654/CEE,
89/655/CEE, 89/656/CEE, 90/269/CEE, 90/270/CEE, 90/394/CEE, 90/679/CEE
riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori sul
luogo di lavoro, ?1. Si intende per dispositivo di protezione individuale
qualsiasi attrezzatura destinata ad essere indossata e tenuta dal lavoratore
allo scopo di proteggerlo contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la
sicurezza o la salute durante il lavoro, nonché ogni complemento o accessorio
destinato a tale scopo. 2. Non sono dispositivi di protezione individuale: a)
gli indumenti di lavoro ordinari e le uniformi non specificamente destinati a
proteggere la sicurezza e la salute del lavoratore;...";
16. tale previsione si pone in continuità con quelle di cui al D.P.R. n. 547 del
1955; ai sensi dell'art. 377, relativo a "Mezzi personali di protezione", "il
datore di lavoro, fermo restando quanto specificatamente previsto in altri
articoli del presente decreto, deve mettere a disposizione dei lavoratori mezzi
personali di protezione appropriati ai rischi inerenti alle lavorazioni ed
operazioni effettuate, qualora manchino o siano insufficienti i mezzi tecnici di
protezione. - I detti mezzi personali di protezione devono possedere i necessari
requisiti di resistenza e di idoneità nonché essere mantenuti in buono stato di
conservazione"; secondo l'art. 379 relativo agli "Indumenti di protezione", " Il
datore di lavoro deve, quando si è in presenza di lavorazioni, o di operazioni o
di condizioni ambientali che presentano pericoli particolari non previsti dalle
disposizioni del Capo 3A del presente Titolo (art. 366 ss.), mettere a
disposizione dei lavoratori idonei indumenti di protezione"). L'art. 40 cit. è
stato poi sostituito dall'art. 74, D.Lgs. n. 81 del 2008, che ne ricalca
interamente il testo;
17. il D.Lgs. n. 626 del 1994, all'art. 4, comma 5, prevede che "il datore di
lavoro adotta le misure necessarie per la sicurezza e la salute dei lavoratori
e, in particolare..lett. d) fornisce ai lavoratori i necessari e idonei
dispositivi di protezione individuale, sentito il responsabile del servizio di
prevenzione e protezione";
18. l'interpretazione data dalla Corte di merito al citato art. 40, volta a far
coincidere i D.P.I. con le attrezzature formalmente qualificate come tali in
ragione della conformità a specifiche caratteristiche tecniche di realizzazione
e commercializzazione, non tiene adeguatamente conto del tenore letterale delle
disposizioni richiamate e, soprattutto, della finalità delle stesse, di tutela
della salute quale diritto fondamentale (art. 32 Cost.);
19. l'espressione adoperata dall'art. 40 cit., che fa riferimento a "qualsiasi
attrezzatura" nonché ad "ogni complemento o accessorio" destinati al fine di
proteggere il lavoratore "contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la
sicurezza e la salute durante il lavoro", deve essere intesa nella più ampia
latitudine proprio in ragione della finalizzazione a tutela del bene primario
della salute e dell'ampiezza della protezione garantita dall'ordinamento
attraverso non solo disposizioni che pongono specifici obblighi di prevenzione e
protezione a carico del datore di lavoro, ma anche attraverso la norma di
chiusura di cui all'art. 2087 c.c.;
20. lo stesso D.Lgs. 81 del 2008 (seppure non applicabile ratione temporis)
contiene nell'allegato VIII un "Elenco" espressamente definito "indicativo e non
esauriente delle attrezzature di protezione individuale", che costituisce la
conferma del contenuto necessariamente "aperto" della categoria dei mezzi di
protezione e quindi della correttezza della s salvaguardare l'ampiezza
dell'obbligo di tutela esame;
21. da tali premesse discende come la previsione dell'art. 43, commi 3 e 4,
D.Lgs. n. 626 del 1994, secondo cui "3. Il datore di lavoro fornisce ai
lavoratori i DPI (dispositivi di protezione individuale) conformi ai requisiti
previsti dall'art. 42 e dal decreto di cui all'art. 45, comma 2"; 4. Il datore
di lavoro: - a) mantiene in efficienza i DPI (dispositivi di protezione
individuale) e ne assicura le condizioni d'igiene, mediante la manutenzione, le
riparazioni e le sostituzioni necessarie ( )", non possa essere letta in senso
limitativo del contenuto e del novero dei D.P.I., come ha fatto la Corte
d'appello, bensì quale previsione di un ulteriore obbligo di carattere generale,
posto a carico del datore di lavoro, di adeguatezza dei D.P.I. e di manutenzione
dei medesimi;
22. parimenti non rilevante è la circostanza della previsione o meno degli
specifici D.P.I. nell'ambito del documento di valutazione dei rischi, atteso che
l'obbligo posto dall'art. 4, comma 5 del D.L.gs. n. 626 del 1994 di fornire ai
lavoratori i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale,
costituisce un precetto al quale il datore di lavoro è tenuto a conformarsi a
prescindere dal fatto che il loro utilizzo sia specificamente contemplato nel
documento di valutazione dei rischi, confezionato dal medesimo datore di lavoro
(in tal senso, con riferimento alla omologa previsione di cui all'att. 18, lett.
d), D.Lgs. n. 81 del 2008, cfr. Cass. pen., n. 13096 del 2017);
23. la categoria dei D.P.I. deve essere quindi definita in ragione della
concreta finalizzazione delle attrezzature, degli indumenti e dei complementi o
accessori alla protezione del lavoratore dai rìschi per la salute e la sicurezza
esistenti nelle lavorazioni svolte, a prescindere dalla espressa qualificazione
in tal senso da parte del documento di valutazione dei rischi e dagli obblighi
di fornitura e manutenzione C.A.mplati nel contratto collettivo;
24. da questo punto di vista appare coerente la distinzione che l'art. 40 cit.
pone tra ciò che integra un D.P.I. e ciò che non è tale; in particolare, la
lett. a) del comma 2 esclude che costituiscano D.P.I. "gli indumenti di lavoro
ordinari e le uniformi non specificamente destinati a proteggere la sicurezza e
la salute del lavoratore", vale a dire gli indumenti che in nessun modo sono
correlati alla finalità di protezione da un rischio per la salute, e che
assolvono unicamente alla funzione di uniforme aziendale o di preservare gli
abiti civili;
25. in tal senso si è espressa la circolare del Ministero del Lavoro n. 34 del
1999 (che non costituisce fonte del diritto, ma presupposto chiarificatore della
posizione espressa dall'Amministrazione su un determinato oggetto, cfr. Cass. n.
7889 del 2011; n. 23042 del 2012; n. 1577 del 2014; n. 280 del 2016) che ha
elencato le diverse funzioni a cui possono assolvere gli indumenti di lavoro, in
particolare: a) elemento distintivo di appartenenza aziendale, ad esempio
uniformi o divise; b) mera preservazione degli abiti civili dalla ordinaria
usura connessa all'espletamento dell'attività lavorativa; c) protezione da
rischi per la salute e la sicurezza; la circolare ha specificato che "in
quest'ultimo caso gli indumenti rientrano nei dispositivi di sicurezza che
assolvono alla funzione di protezione dai rischi, ai sensi dell'art. 40 del
Decreto Legislativo 19 settembre 1994 n. 626. Rientrano, ad esempio, tra i
D.P.I. ... gli indumenti per evitare il contatto con sostanze nocive, tossiche,
corrosive o con agenti biologici ecc.";
26. questa Corte ha più volte affermato, anche sotto il vigore del D.Lgs. n. 626
del 1994, come "in tema di tutela delle condizioni di igiene e sicurezza dei
luoghi di lavoro, ed in particolare di fornitura ai lavoratori di indumenti,
alla stregua della finalità della disciplina normativa apprestata dal
legislatore, per "indumenti di lavoro specifici" si debbono intendere le divise
o gli abiti aventi la funzione di tutelare l'integrità fisica del lavoratore
nonché quegli altri indumenti, essenziali in relazione a specifiche e peculiari
funzioni, volti ad eliminare o quanto meno a ridurre i rischi ad esse connessi
(come la tuta ignifuga del vigile del fuoco), oppure a migliorare le condizioni
igieniche in cui viene a trovarsi il lavoratore nello svolgimento delle sue
incombenze, onde scongiurare il rischio potenziale di contrarre malattie, come
appunto deve reputarsi per la divisa dell'operatore ecologico (cfr. Cass. n.
11071 del 2008; nello stesso senso Cass. n. 23314 del 2010);
27. con particolare riferimento agli operatori ecologici, addetti alla raccolta
dei rifiuti, questa Corte ha sempre affermato l'obbligo datoriale di
manutenzione e lavaggio degli indumenti da lavoro sul presupposto, fattuale e
logico, della qualificazione degli indumenti medesimi come dispositivi di
protezione individuale;
28. si è in particolare precisato come "l'idoneità degli indumenti di protezione
che il datore di lavoro deve mettere a disposizione dei lavoratori - a norma del
D.P.R. n. 547 del 1955, art. 379 fino alla data di entrata in vigore del D.Lgs.
n. 626 del 1994 e ai sensi dell'art. 40, art. 43, commi 3 e 4, di tale decreto,
per il periodo successivo - deve sussistere non solo nel momento della consegna
degli indumenti stessi, ma anche durante l'intero periodo di esecuzione della
prestazione lavorativa. Le norme suindicate, infatti, finalizzate alla tutela
della salute quale oggetto di autonomo diritto primario assoluto (art. 32
cost.), solo nel suddetto modo conseguono il loro specifico scopo che, nella
concreta fattispecie, è quello di prevenire l'insorgenza e il diffondersi
d'infezioni. Ne consegue che, essendo il lavaggio indispensabile per mantenere
gli indumenti in stato di efficienza, esso non può non essere a carico del
datore di lavoro, quale destinatario dell'obbligo previsto dalle citate
disposizioni", (cfr. Cass., n. 11139 del 1998; n. 22929 del 2005; n. 14712 del
2006; n. 22049 del 2006; n. 18573 del 2007; n. 11729 del 2009; n. 16495 del
2014; n. 8585 del 2015);
29. nella sentenza n. 18674 del 2015, questa Corte, nel confermare la pronuncia
di appello che aveva qualificato come D.P.I. gli indumenti usati da una
lavoratrice addetta alla pulizia delle carrozze dei treni, attività comportante
la raccolta di rifiuti, lo svuotamento di cestini e portacenere e l'inevitabile
contatto con sostanze nocive o patogene, come la polvere, la sporcizia, residui
organici, ha affermato che "per i lavori di pulizia di ambienti, treni, ecc. la
semplice tuta di cotone può considerarsi un (seppur minimo) mezzo o dispositivo
di protezione individuale, e non solo strumento identificativo dell'azienda per
cui si lavora, e come tale essa deve essere fornita dal datore di lavoro e
tenuta in stato idoneo"; la medesima pronuncia ha ritenuto come l'inclusione
degli indumenti tra i D.P.I. in ragione della funzione protettiva svolta dovesse
prescindere dalla loro qualificazione o meno in tal senso da parte delle fonti
contrattuali collettive e, deve aggiungersi, anche da parte del documento di
valutazione dei rischi;
30. sulla base del quadro normativo in materia di protezione della sicurezza e
della salute dei lavoratori, di rilievo costituzionale nonché attuativo delle
direttive europee (a partire dalla direttiva quadro 89/391/CE) e delle
convenzioni internazionali, incentrato sull'obbligo di prevenzione quale insieme
di "disposizioni o misure adottate o previste in tutte le fasi dell'attività
lavorativa per evitare o diminuire i rischi professionali nel rispetto della
salute della popolazione e dell'integrità dell'ambiente esterno" (art. 2, lett.
g), D.Lgs. n. 626 del 1994), la giurisprudenza di legittimità ha collegato
l'obbligo di fornitura e manutenzione dei D.P.I. alla idoneità, seppur minima,
dei medesimi di ridurre i rischi legati allo svolgimento dell'attività
lavorativa, costituendo specifico obbligo datoriale quello di porre in essere
tutte le misure necessarie per garantire la salute e sicurezza dei lavoratori e
quindi per prevenire, con specifico riferimento agli operatori ecologici,
l'insorgere e la diffusione di infezioni in danno dei medesimi e dei loro
familiari, a cui il rischio si estenderebbe in caso di lavaggio degli indumenti
da lavoro in ambito domestico;
31. nessun rilievo può attribuirsi alle pronunce di legittimità richiamate nella
sentenza impugnata e nel controricorso (Cass. nn. 2625, 5176, 13745 del 2014),
in quanto relative a lavoratori non addetti alla raccolta dei rifiuti, bensì a
mansioni di giardiniere; neppure paiono significativi i precedenti di questa
Corte (sentenze Sez. 6, nn. 13931 - 13936, 13707, 14033 -14035, tutte
pronunciate all'udienza del 15.4.2014) in cui è precisato come fosse estraneo al
giudizio trattato il thema deddendum "della tutela della salute, della
conformità degli indumenti fomiti alla normativa vigente e, quindi, della
violazione dell?art. 2087 c.c., dell?art. 35, punti 1 e 3 (b e c), art. 4 (c) e
D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 40..."; peraltro, nelle fattispecie decise con le
sentenze del 2014 appena richiamate non risulta che l'azienda avesse accettato
di farsi carico del lavaggio settimanale degli indumenti da lavoro, come invece
avvenuto da parte della società attuale controricorrente, a seguito delle
prescrizioni contenute nel verbale ispettivo dell'Asl;
32. la sentenza impugnata ha dato atto dell'esito del sopralluogo effettuato
dall'Asl il 4.8.2005 che aveva individuato l'esistenza, nel settore della
raccolta dei rifiuti svolta dalla società, di un rischio infettivo, più
esattamente di un rischio da contatto con sostanze tossiche, nocive ed agenti
biologici;
33. la Corte di merito, nonostante l'accertamento sulla esistenza di rischi,
specie di natura infettiva, per la salute dei lavoratori impegnati nell'attività
di raccolta dei rifiuti, rischi legati al possibile contatto con sostanze
nocive, tossiche o corrosive, ha escluso la qualificazione degli indumenti
fomiti dalla società come D.P.I. sul rilievo che gli stessi non possedessero una
specifica funzionalità protettiva desumibile da caratteristiche tecniche dettate
per la loro realizzazione e commercializzazione, e ciò nonostante non
risultassero adottati altri strumenti in grado di fronteggiare il rischio
pacificamente accertato, cosicché le tute rappresentavano per gli operatori
ecologici l'unico schermo di protezione in concreto utilizzabile contro il
possibile contatto con sostanze nocive per la salute;
34. in tal modo la sentenza impugnata è incorsa nel denunciato vizio di
violazione di legge avendo interpretato l'art. 40, comma 1, D.lgs. n. 626 del
1994, e la nozione legale di D.P.I. come limitata alle attrezzature
appositamente create e commercializzate per la protezione di specifici rischi
alla salute in base a caratteristiche tecniche certificate; laddove la
disposizione suddetta, per l'ampio tenore letterale della previsione e la
precipua finalità di tutela di beni fondamentali del lavoratore, deve essere
letta, in conformità alla giurisprudenza di questa Corte, nel senso di includere
nella categoria dei D.P.I. qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio che
possa in concreto costituire una barriera protettiva, sia pure ridotta o
limitata, rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del
lavoratore, ai fini deiradempimento datoriale all'obbligo, posto dall'art. 4,
comma 5, D.lgs. n. 626 del 1994;
35. l'accoglimento del secondo, terzo e quinto motivo di ricorso, porta a
ritenere assorbiti il primo e il sesto motivo;
36. risulta, invece, inammissibile il quarto motivo di ricorso in quanto
contenente censure di incompletezza ed inattendibilità del D.V.R. che non è
stato, tuttavia, prodotto né trascritto nelle parti rilevanti;
37. la sentenza impugnata deve essere pertanto cassata, in relazione ai motivi
accolti, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio di cassazione,
alla Corte d'appello di Cagliari, in diversa composizione, che provvederà ad un
riesame della fattispecie attenendosi a tutti i principi sopra enunciati e
quindi anche al seguente:
"la nozione legale di Dispositivi di Protezione Individuale (D.P.I.) non deve
essere intesa come limitata alle attrezzature appositamente create e
commercializzate per la protezione di specifici rischi alla salute in base a
caratteristiche tecniche certificate, ma, in conformità alla giurisprudenza di
legittimità, va riferita a qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio che
possa in concreto costituire una barriera protettiva, sia pure ridotta o
limitata, rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del
lavoratore, in conformità con l'art. 2087 cod. civ., norma di chiusura del
sistema di prevenzione degli infortuni e malattie professionali, suscettibile di
interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto
alla salute sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo
svolgimento del rapporto di lavoro. Nella medesima ottica il datore di lavoro è
tenuto a fornire i suddetti indumenti ai dipendenti e a garantirne l'idoneità a
prevenire l'insorgenza e il diffondersi di infezioni provvedendo al relativo
lavaggio, che è indispensabile per mantenere gli indumenti in stato di
efficienza e che, pertanto, rientra tra le misure necessarie "per la sicurezza e
la salute dei lavoratori" che il datore di lavoro è tenuto ad adottare ai sensi
dell'art. 4, comma 5, del d.lgs. n. 626 del 1994 e degli arti. 15 e ss. del
d.lgs. n. 81 del 2008 e s.m.i. (Fattispecie riguardante gli addetti alla
raccolta e allo smaltimento dei rifiuti solidi urbani)".
P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo, terzo e quinto motivo di ricorso nei limiti di cui
in motivazione, dichiara inammissibile il quarto motivo, assorbiti il primo e il
sesto; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla
Corte d'appello di Cagliari, in diversa composizione, cui demanda anche di
provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.
|