Cassazione Penale, Sez. 5, 15 febbraio 2019, n. 7225
Presidente Palla ? Relatore Borrelli
Fatto
1. L'odierno giudizio verte intorno alla sentenza del Tribunale di Trieste che,
quale Giudice di appello, aveva confermato la condanna di Mi. Sp. per minaccia
ai danni di una sua dipendente presso la casa di riposo "La Primula", S.B., con
l'irrogazione di una pena di cinquanta Euro di multa.
2. Lo Sp. ha proposto ricorso per cassazione a mezzo del proprio difensore di
fiducia, strutturandolo su due motivi, non prima di avere riepilogato e
commentato il contenuto degli atti del procedimento - dalla querela, alle
sommarie informazioni testimoniali, alle deposizioni testimoniali, ai motivi di
appello, alla sentenza resa dal Tribunale - e di avere segnalato che vi era
stata rinunzia alla prescrizione.
2.1. Il primo motivo di ricorso deduce omessa motivazione e violazione di legge,
con specifico riferimento alla ritenuta configurabilità del reato di minaccia
per difetto di ingiustizia del male prospettato. Secondo quando contestato nel
capo di imputazione, la frase attribuita all'imputato non aveva contenuto
minatorio, trattandosi di una sollecitazione a rassegnare le dimissioni che, una
volta non accolta, avrebbe determinato il datore di lavoro ad impedire alla
dipendente di fumare in bagno. Una riflessione analoga, benché contenuta
nell'atto di appello, non aveva ricevuto risposta.
2.2. Il secondo motivo lamenta mancanza, manifesta illogicità o
contraddittorietà della motivazione in punto di attendibilità della persona
offesa; il Tribunale aveva infatti trascurato di considerare che la S.B. aveva
confessato di avere prodotto un falso certificato medico per essere collocata in
malattia, il che avrebbe dovuto svilire la sua credibilità. Analoga conseguenza
sarebbe dovuta derivare dal mancato apprezzamento della evidente falsità della
sua affermazione di essersi recata presso il sindacato per far controllare la
propria busta-paga e dalle contraddizioni della sua deposizione emerse in
dibattimento, oltre che da quelle con la testimonianza del Licandro,
giustificate dal Giudice monocratico con l'assunto che, ove le due versioni
fossero state concordate a tavolino, esse sarebbero state perfettamente
coincidenti.
Diritto
1. Il ricorso è inammissibile.
2. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato, dal momento che fonda
la mancanza di ingiustizia del male prospettato su una lettura erronea della
frase riportata nel capo di imputazione; in quest'ultimo, infatti, la frase
attribuita al ricorrente è «ti conviene licenziarti....se rimani diventerò
cattivo, non ti darò tregua, non ti lascerò andare in bagno e neanche a fumare
una sigaretta» e non, quanto a quest'ultima parte, «...non ti lascerò andare in
bagno neanche a fumare una sigaretta». E' evidente, dunque, che il contenuto
della frase oggetto di contestazione non può essere in alcun modo riferito alla
sola prefigurazione, da parte del datore di lavoro, del potere di controllo
circa l'abitudine della prestatrice d'opera di fumare in bagno, ma ad una più
ampia limitazione dei diritti della lavoratrice, quale quello di utilizzare i
servizi igienici, a prescindere dall'abitudine del fumo.
3. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile in parte perché diretto ad
ottenere una rivalutazione del materiale istruttorio ed a sostenere una diversa
concatenazione degli eventi secondo una prospettiva alternativa e
soggettivamente orientata; e in parte perché manifestamente infondato siccome
denso di critiche nei confronti di una sentenza che invece non presenta tratti
di manifesta illogicità, con particolare riferimento alla valutazione circa le
non negate incongruenze tra la deposizione della S.B. e quella del Licandro e
circa la giustificazione delle imprecisioni narrative dei due.
A questo riguardo, va ricordato che, in tema di vizi della motivazione, il
controllo di legittimità operato dalla Corte di cassazione non deve stabilire se
la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile
ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, ma deve
limitarsi a verificare se tale giustificazione sia compatibile con il senso
comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento.
Con riferimento, infine, alla dedotta carenza di affidabilità della persona
offesa nel momento in cui non aveva esitato a produrre un falso certificato
medico ed a simulare una malattia, il Collegio ritiene che, quantunque tale
aspetto non sia stato affrontato nella decisione impugnata, non può per ciò solo
configurarsi un'omissione motivazionale idonea ad inficiare la tenuta della
motivazione.
Giova, infatti, rievocare il principio di diritto secondo cui, quando viene
dedotto vizio di motivazione, la presenza di minime incongruenze argomentative o
l'omessa esposizione di elementi di valutazione, che non siano
inequivocabilmente munite di un chiaro carattere di decisività, non possono dar
luogo all'annullamento della sentenza, posto che non costituisce vizio della
motivazione qualunque omissione valutativa che riguardi singoli dati estrapolati
dal contesto, ma è solo l'esame del complesso probatorio entro il quale ogni
elemento sia contestualizzato che consente di verificare la consistenza e la
decisività degli elementi medesimi oppure la loro ininfluenza ai fini della
compattezza logica dell'impianto argomentativo della motivazione (Sez. 1, n.
46566 del 21/02/2017, M e altri, Rv. 271227 - 01; Sez. 2, n. 9242 del 8/02/2013,
Reggio, Rv. 254988).
Ebbene, nei limiti del sindacato del Giudice di legittimità, la lettura
complessiva del materiale valorizzato induce ad escludere la valenza
disarticolante dell'omesso esame su quel dato, restando il medesimo confinato ad
un tentativo di smentire l'attendibilità della persona offesa avendo riguardo ad
una condotta priva di implicazioni dirette sul suo narrato eteroaccusatorio.
2. All'inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente, ai sensi
dell'art.616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento e al
versamento della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende,
così equitativamente determinata in relazione ai motivi di ricorso che inducono
a ritenere la parte in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità
(Corte cost. 13/6/2000 n.186).
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali ed al pagamento della somma di Euro 2000,00 a favore della
Cassa delle ammende.