Civile Ord. Sez. L Num. 19389 Anno 2019 Presidente: NAPOLETANO GIUSEPPE
Relatore: BELLE' ROBERTO Data pubblicazione: 18/07/2019
Rilevato che
la Corte d'Appello di Reggio Calabria ha rigettato, con sentenza n. 1165/2014,
il gravame proposto dal Comune di Motta San Giovanni avverso la pronuncia del
Tribunale di Reggio Calabria che aveva condannato l'ente e P.L., quale
responsabile del settore tecnico del medesimo Comune, a risarcire i danni non
patrimoniali conseguenti alla morte, in esito ad un infortunio sul lavoro, di
C.P., padre dei ricorrenti G. e R. C. e marito dalla ricorrente A.Z.;
in fatto era accaduto che C.P., addetto al settore rifiuti, mentre era
posizionato sulla pedana posteriore dell'autocompattatore condotto da altro
dipendente, cadde rovinosamente sulla carreggiata, riportando lesioni che ne
avevano determinato il decesso;
la Corte territoriale rilevava come il processo penale intercorso nei confronti
del P.L. si fosse chiuso, quanto al Comune, con la declaratoria di
responsabilità risarcitoria, sia pure in forma generica, pronunciata dalla Corte
d'Appello e, quanto all'imputato, con la pronuncia di prescrizione' del reato da
parte della Corte di Cassazione, con espressa conferma però dell'analoga
statuizione di responsabilità risarcitoria resa in grado di appello;
veniva quindi confermato il riconoscimento operato dal Tribunale di euro
240.000,00 per ciascuno dei danneggiati, così calcolati sulla base di un
parametro di partenza attorno ai valori massimi delle tabelle in uso presso il
Tribunale di Milano e di un abbattimento del 20 % in ragione del concorso di
colpa della vittima accertato in sede penale;
avverso tale sentenza il Comune propone ricorso per cassazione con due motivi,
resistiti da controricorso avversario, seguiti poi da memorie difensive di
entrambe le parti;
Considerato che
con il primo motivo di ricorso il Comune ricorrente censura la sentenza
impugnata per violazione o falsa applicazione delle norme che regolano la
rilevanza civile del giudicato penale, sostenendo che, essendovi stata
estinzione del reato, il giudice dovesse valutare ex novo i fatti in
contestazione; il motivo è infondato in quanto, come sottolinea giustamente la
Corte d'Appello, nel caso di specie vi è stata statuizione del giudice penale
nei confronti dell'imputato e del Comune come responsabile civile, sulla domanda
del tre congiunti del C., ivi costituiti come parti civili;
ai sensi dell'art. 578 c.p.p., infatti, nel dichiarare estinto il reato, la
Corte di Cassazione, allorquando la sentenza impugnata contenga pronuncia di
condanna nei confronti dell'Imputato alle restituzioni ed al risarcimento del
danno, decide sull?impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi
della sentenza che concernono gli interessi civili;
ciò è quanto avvenuto, sicché, ai sensi dell'art. 538, co. 3, c.p.p., vi è stata
condanna nei confronti anche del Comune quale responsabile civile, che ha come
tale effetto di giudicato civile reso in sede penale tra il predetto
responsabile e la parte civile, mentre non rilevano le norme di cui agli artt.
651, 651-bis e 652 c.p.p.. le quali presuppongono che il giudice penale non
abbia pronunciato sugli interessi civili (Cass. 9 marzo 2018, n. 5660);
vale in sostanza il consolidato principio per cui «qualora, in sede penale, sia
stata pronunciata in primo o in secondo grado la condanna, anche generica, alle
restituzioni e al risarcimento dei danni cagionati dai reato a favore della
parte civile, ed il giudice di appello o la corte di cassazione, nel dichiarare
il reato estinto per amnistia o per prescrizione, decidano sull'impugnazione ai
soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli
interessi civili, una tate decisione, se la predetta condanna resta confermata,
comportando necessariamente, quale suo indispensabile presupposto,
l'affermazione della sussistenza del reato e della sua commissione da parte
dell'imputato, dà luogo a giudicato civile, come tale vincolante in ogni altro
giudizio tra le stesse parti, in cui si verta sulle conseguenze, anche diverse
dalle restituzioni o dal risarcimento, derivanti dal fatto, la cui illiceità,
ormai definitivamente stabilita, non può più essere messa in discussione» (Cass.
29 gennaio 2013, n. 2083; Cass. 21 giugno 2010, n. 1491; analogamente anche
Cass. 5660/2018);
parimenti corretta, su tali presupposti, è la valutazione della Corte
territoriale secondo cui nessun rilievo era da attribuire a quanto deciso da
Cass., S.U., 26 gennaio 2011, n. 1768 (secondo cui «in tema di giudicato ... le
sentenze di non doversi procedere perché il reato è estinto per prescrizione o
per amnistia non hanno alcuna efficacia extrapenale, a nulla rilevando che il
giudice penale, per pronunciare la sentenza di proscioglimento, abbia dovuto
accertare i fatti e valutarli giuridicamente»), in quanto in quel caso non
sussisteva pronuncia definitiva penale sui capi civili, la cui ricorrenza nella
vicenda qui in esame ha invece, con la forza propria del giudicato civile, le
conseguenze, sfavorevoli al
Comune, che di quel processo era parte come responsabile civile, di cui si è
detto;
il secondo motivo è rubricato come inerente l'erroneità della sentenza per
omesso esame circa un fatto decisivo e contiene critiche in merito alla mancata
differenziazione, nella determinazione del quantum risarcitorio, fra le
posizioni del coniuge, la cui patologia psichica preesisteva all'infortunio e
quella dei figli, denunciando altresì carenze di prova rispetto alle circostanze
atte a giustificare la fissazione del dovuto in misura massima rispetto alle
tabelle di riferimento, oltre al mancato apprezzamento, nell'applicazione delle
tabelle, della concretezza del danno;
il motivo è, nel suo insieme, inammissibile;
la Corte territoriale, nel fissare il risarcimento, ha ampiamente argomentato
sulla giovane età del figli (che non è solo ragione di maggior aggravio del
danno per loro ma anche, da altro punto di vista, per la loro madre e moglie
dell'infortunato), sulla convivenza familiare, sul carattere tragico della
dinamica del sinistro e sul fatto che era la vittima a provvedere al
mantenimento della famiglia;
trattandosi di danno da morte da perdita del rapporto parentale e non in senso
stretto di danno biologico, sfugge poi la decisività che avrebbe l'omesso esame,
denunciato dalla ricorrente, della preesistente patologia psichica a carico
della moglie del C. e dunque non ricorre uno degli elementi essenziali della
fattispecie di cui all'art. 360 n. 5 c.p.c. novellato;
nel resto le critiche sono volte a sollecitare un riesame nel merito del profilo
quantitativo del risarcimento, in quanto difforme rispetto alle aspettative
della parte ricorrente, che palesemente esula dall'ambito del giudizio di
legittimità (Cass. 25 ottobre 2013, n. 24148);
alla reiezione del ricorso segue la regolazione secondo soccombenza delle spese
del giudizio di legittimità;
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a
rifondere alle controparti le spese del giudizio di legittimità, che liquida in
euro 6.500,00 per compensi ed euro 200,00 per spese, oltre spese generali in
misura del 15 % ed accessori di legge.
Ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater del d.p.r. 115 del 2002, dà atto della
sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente,
dell'ulteriore Importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per
il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma nell'adunanza camerale del 16.1.2019.