Civile Ord. Sez. L Num. 6940 Anno 2019 Presidente: NAPOLETANO GIUSEPPE Relatore: TRICOMI IRENE
Civile Ord. Sez. L Num. 6940 Anno 2019 Presidente: NAPOLETANO GIUSEPPE
Relatore: TRICOMI IRENE Data pubblicazione: 11/03/2019
Rilevato
1. Che la Corte d'Appello di Palermo, con la sentenza n. 1026/13, ha rigettato
l'Impugnazione proposta da M.V. nei confronti dell'Azienda sanitaria provinciale
(ASP) di Trapani e dell'INAIL, confermando la sentenza emessa dal Tribunale di
Trapani tra le parti.
2. Il giudice di primo grado aveva rigettato il ricorso con cui la M.V., medico
ex dipendente dell'AUSL n. 9 di Trapani, aveva chiesto la declaratoria di
nullità dell'atto deliberativo n. 4352 dell'11 dicembre 2003 e successivi, con
il quale le era stato revocato l'incarico di dirigente distrettuale di medicina
legale, fiscale e necroscopica, e conferito quello professionale di assistenza
riabilitativa e protesica; della delibera n. 1821 del 27 maggio 2004, con cui le
era stato affidato l'incarico di responsabile dell'UO Acque nell'ambito del
servizio di laboratorio medico di sanità pubblica del dipartimento di
prevenzione, e conseguentemente, condannarsi, indifferentemente, l'AUSL n. 9 e
l'INAIL al risarcimento del "danno professionale (patrimoniale) e da perdita di
chance, in via equitativa nella somma di euro 784.400,00", ed inoltre affermarsi
la responsabilità datoriale per gli "atti vessatori (mobbing) subiti" e
condannarsi "l'Azienda convenuta e l'INAIL" al risarcimento del danno biologico
in misura di euro 83.315,34, e del danno esistenziale da determinarsi
equitativamente.
3. La Corte d'Appello, come già il Tribunale, individuava il petitum:
risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale - biologico, morale,
esistenziale, e la causa petendi: inadempimento da dequalificazione e da mobbing.
In ragione della suddetta individuazione dell'oggetto del giudizio, riteneva la
inconsistenza della lamentata omessa declaratoria (nel dispositivo della
sentenza) della riconosciuta (in motivazione) illegittimità delle delibere
censurate.
Invero, afferma la Corte d'Appello, l'accertamento dell'illegittimità degli atti
deliberativi in questione costituisce il presupposto della domanda risarcitoria
formulata dalla M.V. nella sua duplice articolazione.
In sostanza, statuisce il giudice di secondo grado, ciò che rilevava nella
specie, avuto riguardo al petitum, non era la illegittimità in sé delle
delibere, ma gli eventuali effetti pregiudizievoli patrimoniali e professionali,
che da tale inadempimento fossero eventualmente derivati alla ricorrente e la
rilevanza dello stesso ai fini della configurabilità della più complessa
fattispecie vessatoria, sicché una volta esclusa la prova dei primi, ed
affermata l'insufficienza ai fini della configurabilità della seconda, nessuna
statuizione doveva essere resa a riguardo.
Il giudice di appello riteneva quindi non sussistere danno, né la condotta
vessatoria.
4. Per la cassazione della sentenza resa in grado di appello ricorre la
lavoratrice prospettando tre motivi di ricorso.
5. Si sono costituiti con autonomi controricorsi sia l'Azienda sanitaria
provinciale di Trapani che l'INAIL, resistendo al ricorso.
6. La lavoratrice ha depositato memoria in prossimità dell'udienza pubblica, con
la quale ha esposto che nelle more del giudizio si era formato giudicato esterno
(sentenza n. 435 del 2014 del Tribunale di Trapani) circa l'esistenza del danno
e del nesso causale tra le patologie sofferte dalla ricorrente ed i
comportamenti illegittimi della ASP.
Considerato
1. Che, preliminarmente, va esaminata l'eccezione formulata con la memoria,
relativa alla sussistenza di giudicato esterno.
Come questa Corte ha già avuto modo di affermare (Cass., n. 11314 del 2018, n.
20629 del 2016), qualora due giudizi tra le stesse parti abbiano fatto
riferimento al medesimo rapporto giuridico ed uno dei due sia stato definito con
sentenza passata in giudicato, l'accertamento così compiuto in ordine alla
situazione giuridica, ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto
relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe le cause, formando la
premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della
sentenza con autorità di cosa giudicata, preclude il riesame dello stesso punto
di diritto accertato e risolto, e ciò anche se il successivo giudizio abbia
finalità diverse da quelle che hanno costituito lo scopo ed il "petitum" del
primo.
Nella specie, la sentenza n. 435 del 2014 aveva ad oggetto la domanda di
accertamento della dipendenza da causa di servizio della "sindrome depressiva
reattiva" della lavoratrice.
In proposito, il Tribunale affermava sussistere il nesso di causalità tra la
lesione patita dal dipendente e l'attività lavorativa svolta, precisando che
l'istituto (infermità da causa di servizio) non concerne in alcun modo la
"responsabilità" del datore di lavoro, nel senso che il nesso di causalità non
riguarda necessariamente una condotta illecita datoriale. Piuttosto, anche il
mero svolgimento dell'attività lavorativa, laddove incida negativamente sullo
stato di salute del ricorrente, determina la possibilità di esperire il rimedio
in oggetto.
2. Ciò trova conferma nella giurisprudenza di questa Corte secondo cui (Cass.,
n. 25151 del 2017) la dipendenza della malattia del lavoratore da una "causa di
servizio" non implica, né può far presumere, che l'evento dannoso sia derivato
dalle condizioni di insicurezza dell'ambiente di lavoro, essendo possibile che
la patologia accertata debba essere collegata alla qualità intrinsecamente
usurante della ordinaria prestazione lavorativa ed al logoramento dell'organismo
del dipendente esposto ad un lavoro impegnativo per un lasso di tempo più o meno
lungo. In detto ultimo caso si resta al di fuori dell'ambito dell'art. 2087 cod.
civ., che riguarda una responsabilità contrattuale ancorata a criteri
probabilistici e non solo possibilistici.
3. Peraltro, ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono
ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio - illeciti o
anche leciti se considerati singolarmente - che, con intento vessatorio, siano
posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato
nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o
anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b)
l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla
vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d)
l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i
comportamenti lesivi (Cass., n. 17698 del 2014).
Di talché, ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo, l'elemento
qualificante, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta
vessatoria, va ricercato non nell'illegittimità dei singoli atti, bensì
nell'intento persecutorio che li unifica (Cass., n. 26684 del 2017).
Dunque, l'intervenuto accertamento passato in giudicato della infermità da causa
di servizio, sul presupposto, come si legge nella sentenza Tribunale di Trapani
n. 435 del 2014, che "è certo che i fatti narrati dalla ricorrente si siano
svolti come la stessa li ha narrati in ricorso", che sussisteva la sindrome
depressiva e il nesso causale, non offre argomenti di per sé per l'assolvimento
dell'onere probatorio della diversa domanda risarcitoria azionata nel presente
giudizio, la cui fondatezza è stata esclusa dalla Corte d'Appello in mancanza
della prova degli effetti pregiudizievoli e della condotta vessatoria.
4. Può passarsi all'esame dei motivi di ricorso.
5. Con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione
dell'art. 1218 cod. civ. e dell'art. 2087 cod. civ. (art. 360, n. 3, cod. proc.
civ.).
Assume la ricorrente che la Corte d'Appello, pur avendo riconosciuto
l'illegittimità delle delibere adottate dall'ASP di Trapani, ha ritenuto tale
illegittimità non sufficiente a provare la sussistenza di danno non
patrimoniale, in mancanza di connotazioni vessatorie mortificanti delle stesse,
mentre ai sensi dell'art. 1218 cod. civ. non spetta al creditore provare le
finalità vessatorie dell'inadempimento.
Nella specie, vi erano una serie di gravi e oggettivi inadempimenti datoriali, e
non sussistevano labili stati emotivi ed interiori, come affermato dalla Corte
d'Appello, ma una vera patologia psichica.
I comportamenti dell'amministrazione erano di per sé idonei a fondare la prova
della responsabilità ex art. 2087 cod. civ., secondo il riparto dell'onere della
prova come sancito dalla giurisprudenza.
La ricorrente non doveva provare il concerto e la premeditazione di coloro che
avevano posto in essere i comportamenti in questione, ma l'ASP doveva provare di
avere adempiuto agli obblighi di prevenzione e sicurezza, anche in ragione della
malattia della ricorrente.
6. Con il secondo motivo di appello è dedotta la violazione e falsa applicazione
degli artt. 1175 e 1375 cod. civ., nonché dell'art. 2697 cod. civ., e dell'art.
432 cod. proc. civ. Conseguente omesso esame di fatti decisivi che sono stati
oggetto di discussione tra le parti (art. 360, n. 3 e n. 5, cod. proc. civ.). La
Corte d'Appello avrebbe trascurato la sistematica e continuativa violazione di
norme contrattuali e di legge in materia di trasferimenti e di conferimento e
revoca incarichi.
Una volta escluso il concerto tra i soggetti che avevano posto in essere i vari
comportamenti, il giudice di appello si limitava ad affermare che i
provvedimenti non apparivano vessatori e mortificanti, omettendo di analizzarne
le caratteristiche oggettive, pur sottoposte all'esame del giudice
dell'impugnazione.
Inoltre, per la violazione del dovere di correttezza e buona fede non è
necessario il proposito doloso di recare pregiudizio alla controparte.
La Corte d'Appello avrebbe dovuto prendere in considerazione le condotte di cui
era stata oggetto la ricorrente - richiamate nel motivo di ricorso - e l'effetto
delle stesse di dequalificazione professionale e inabilità al lavoro.
L'omissione di tale accertamento aveva fatto escludere di considerare se anche
alcuna delle condotte potesse essere considerata obiettivamente vessatoria, la
lesione della professionalità e il nesso causale tra inadempimento e danno
biologico.
Espone, altresì, la ricorrente che, qualora in accoglimento del ricorso fosse
dato ingresso al nesso causale, il giudice del rinvio dovrebbe esaminare la
questione della legittimazione passiva dell'ASP di Trapani e dell'INAIL,
sussistendo argomenti a favore della prima, quale datore di lavoro, come
sostenuto in appello.
Inoltre, il giudice del rinvio dovrebbe esaminare la domanda di risarcimento del
danno non patrimoniale, ulteriore al danno biologico.
La condotta del datore di lavoro ledeva, altresì, lo sviluppo della personalità
umana, il diritto al lavoro, la partecipazione alla formazione sociale (lavoro)
ove la ricorrente svolgeva la sua personalità.
7. I suddetti motivi di ricorso devono essere trattati congiuntamente in ragione
della loro connessione.
Gli stessi non sono fondati.
7.1. La Corte d'Appello dopo avere precisato l'oggetto del giudizio come sopra
riportato, afferma che nel giudizio di primo grado la lavoratrice aveva chiesto
il risarcimento del danno per perdita di chance sostenendo che la mancata
assegnazione di incarichi coerenti con la propria "disciplina" e "area
funzionale di appartenenza" ne avessero determinato lo "svilimento
professionale" e "la perdita squisitamente retributiva".
Senonchè, afferma la Corte d'Appello, tali deduzioni erano generiche quanto
all'affermato depauperamento del bagaglio professionale, difettando la benché
minima allegazione di elementi, non meramente emotivi ma oggettivamente
accertabili, tale per cui si potesse argomentare che la lesività dei
provvedimenti aziendali non fosse stata solo potenziale ma effettiva, e tale
lacuna non era stata e non poteva, per le preclusioni di merito verificatesi,
essere colmata in sede di gravame, essendosi la appellante limitata a richiamare
le presunzioni senza fornire gli elementi di fatto su cui fondare il
ragionamento deduttivo.
Quanto al danno patrimoniale, la appellante si era limitata al rinvio al
prospetto allegato al ricorso, contenente una serie di voci rispetto alle quali
non era specificato quale sarebbe stata la chance di conseguirle, addirittura
ammettendo per alcune di esse di non avere richiesto le necessarie
autorizzazioni.
Le ulteriori richieste, non avanzate nel ricorso introduttivo, erano
inammissibili per tardività.
Inoltre, la Corte d'Appello ha affermato che ai fini della configurazione della
fattispecie, rileva la sequenza sistematica di comportamenti datoriali ostili,
che per la loro durata, reiterazione, direzionalità e pretestuosità manifestino
oggettivamente il perseguimento di finalità illecite, quali l'isolamento e/o la
vessazione del lavoratore.
La Corte d'Appello affermava che non era stata data la prova dei requisiti
richiesti dalla giurisprudenza per la configurazione del mobbing.
Rilevava che la lavoratrice aveva indicato come persecutorie condotte di plurima
provenienza. In sostanza, si sarebbe realizzato un vero e proprio concorso di
persone indirizzato all'unico fine di perseguitare la lavoratrice stessa che,
però, non si era fatta carico di provare il dedotto concerto, laddove, invece,
proprio la indicata generalità di comportamenti asseritamente ostili, avrebbe
imposto una rigorosa dimostrazione.
Diversamente da quanto mostrava di ritenere la lavoratrice, infatti, tale prova
non poteva trarsi dalla sola illegittimità delle delibere di conferimento e
revoca degli incarichi e dall'esistenza di dissidi o contrasti di volta in volta
manifestatesi nell'ambiente lavorativo, laddove si fosse considerato, per un
verso che gli affermati attacchi personali e professionali, i sabotaggi e gli
insulti, non erano stati neanche contestualizzati e meno che meno provati e,
dall'altro, che dagli unici episodi specificamente allegati con riferimento al
comportamento di altro lavoratore, all'esito dell'istruttoria svolta, non poteva
derivare la conseguenza auspicata dall'appellante, ove si fosse considerato che
la turnazione in cui la lavoratrice era inserita, presso la medicina legale di
Alcamo, non era più gravosa di quella riservata ai suoi colleghi, che tutti i
medici erano assegnate a turni festivi, e che non pareva così grave, ai fini che
interessavano, l'assegnazione del turno il giorno della festa patronale di
Alcamo.
La Corte d'Appello ricorda che persecutoria è la condotta che si presenta
oggettivamente tale, e non quella che il suo destinatario percepisca in detti
termini.
E da tale soggettiva lettura, proseguiva il giudice di secondo grado, non
andavano esenti i provvedimenti di revoca e conferimento degli incarichi
giudicati illegittimi dal Tribunale per difetto di motivazione, sicuramente
espressione di inadempimento, ma non sufficienti per fondare la responsabilità
datoriale per le causali in esame, atteso che la giurisprudenza, anche al di
fuori della fattispecie del mobbing, richiede che il singolo atto abbia
connotazioni vessatorie mortificanti delle quali nella specie non vi era prova.
7.2. Dunque, la ratio decidendè della sentenza di appello, si fonda sulla
mancata prova, anche solo per presunzioni, del danno che sarebbe conseguito al
comportamento inadempiente dell'amministrazione, anche in ragione delle
preclusioni processuali verificatesi.
Tale statuizione si sottrae a censura in quanto fa corretta applicazione dei
principi enunciati da questa Corte, che escludono il carattere oggettivo della
responsabilità ex art. 2087 cod. civ., e stabiliscono le condizioni necessarie
per ravvisare il mobbing.
Non è poi censurata in modo circostanziato la affermata decadenza per il
verificarsi delle preclusioni processuali.
Come questa Corte ha già avuto modo di affermare (Cass., n. 26495 del 2018, n.
24742 del 2018), l'art. 2087 cod. civ. non configura un'ipotesi di
responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro - di
natura contrattuale - va collegata alla violazione degli obblighi di
comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze
sperimentali o tecniche del momento; ne consegue che incombe al lavoratore che
lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla
salute, l'onere di provare, oltre all'esistenza di tale danno, la nocività
dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'una e l'altra, e solo se il
lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l'onere di
provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi
del danno.
Inoltre (Cass., n. 25743 del 2018) il danno derivante da demansionamento e
dequalificazione professionale non ricorre automaticamente in tutti i casi di
inadempimento datoriale, ma può essere provato dal lavoratore anche ai sensi
dell'art. 2729 cod. civ., attraverso l'allegazione di elementi presuntivi gravi,
precisi e concordanti, potendo a tal fine essere valutati la qualità e quantità
dell'attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità
coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione
lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione, prova che la Corte
d'Appello ha escluso fosse stata data.
In tema di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento
e dequalificazione (Cass., n. 29047 del 2017) il riconoscimento del diritto del
lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale,
non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può
prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio,
dell'esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore,
ma oggettivamente accertabile) che alteri le sue abitudini e gli assetti
relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione
e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno.
Tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento
illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente
dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul
lavoratore non solo di allegare il demansionamento ma anche di fornire la prova
ex art. 2697 c.c. del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con
l'inadempimento datoriale.
Il mobbing lavorativo, come si è già ricordato, come affermato dalla
giurisprudenza, sussiste ove ricorra l'elemento obiettivo, integrato da una
pluralità di comportamenti del datore di lavoro, e quello soggettivo
dell'intendimento persecutorio del datore medesimo, e di tale principio la Corte
d'Appello ha fatto corretta applicazione con articolata motivazione, che pone in
evidenza la mancanza di prova della sussistenza di tutti gli elementi che
concorrono a dare luogo al mobbing, nonché la mancata prova di connotazioni
vessatorie e mortificanti dei singoli atti.
Prive di rilievo, in ragione del rigetto dei suddetti motivi di ricorso, sono le
deduzioni relative al giudizio di rinvio.
8. Con il terzo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione
dell'art. 112 cod. proc. civ. (art. 360, n. 4, cod. proc. civ.).
Espone la ricorrente, riportando le conclusioni formulate in fase di merito, che
il petitum consisteva anche nella domanda di dichiarazione dell'accertamento
dell'illegittimità delle delibere di conferimento e revoca incarichi adottate
nei confronti della ricorrente, domanda in merito alla quale la Corte d'Appello
non provvedeva.
La statuizione adottata sul punto dalla Corte d'Appello non costituiva
interpretazione della domanda, ma dava luogo ad un'omissione di pronuncia sul
petitum integrante error in procedendo.
8.1. Il motivo non è fondato.
Non è ravvisabile nella specie error in procedendo in quanto la statuizione
impugnata, sopra riportata al punto 3 del "Rilevato", attiene
all'interpretazione della domanda, ed è stata adottata dal giudice del merito in
conformità con i principi enunciati da questa Corte, secondo cui in tema di
interpretazione delle domande giudiziali, il giudice non è condizionato dalle
parole utilizzate dalla parte e deve tener conto dell'intero contesto dell'atto,
senza alterarne il senso letterale ma, allo stesso tempo, valutandone la
formulazione testuale e il contenuto sostanziale in relazione all'effettiva
finalità che la parte intende perseguire (Cass., n. 19435 del 2018).
Si richiama, altresì, Cass., n. 20718 del 2018, che ha affermato che
l'interpretazione della domanda spetta al giudice del merito, per cui, ove
questi abbia espressamente ritenuto che una certa domanda era stata avanzata ed
era compresa nel "thema decidendoci", tale statuizione, ancorché erronea, non
può essere direttamente censurata per ultrapetizione, atteso che, avendo
comunque il giudice svolto una motivazione sul punto, dimostrando come una certa
questione debba ritenersi ricompresa tra quelle da decidere, il difetto di
ultrapetizione non è logicamente verificabile prima di avere accertato che
quella medesima motivazione sia erronea. In tal caso, il dedotto errore del
giudice non si
configura come "error in procedendo", ma attiene al momento logico relativo
all'accertamento in concreto della volontà della parte.
9. Il ricorso deve essere rigettato.
10. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
11. Ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della
sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente,
dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per
il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 -bis.
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di
giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi, euro 2.500,00 per compensi
professionali, oltre spese generali in misura del 15% e accessori di legge.
Ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della
sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente,
dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per
il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 -bis.
Così deciso in Roma nella adunanza camerale del 28 novembre 2018.
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