Cassazione, sez. Lavoro, ordinanza 20 dicembre 2018 ? 19 febbraio 2019, n.
4815
Presidente Bronzini ? Relatore Ponterio
Rilevato che:
1. con sentenza n. 466 pubblicata il 23.9.2014, la Corte d?appello di Venezia ha
respinto l?appello proposto dal Pastificio R. s.p.a., confermando la sentenza di
primo grado di condanna della predetta società al risarcimento del danno non
patrimoniale cagionato al dirigente sig. Z. dalla condotta vessatoria posta in
essere dal legale rappresentante del Pastificio, sig. R.G.L. ;
2. la Corte territoriale ha ritenuto che la pronuncia del Tribunale avesse ad
oggetto i fatti dedotti dal ricorrente in primo grado a fondamento della pretesa
risarcitoria e relativi alla condotta offensiva e vessatoria posta in essere in
suo danno dal legale rappresentante della società, quantomeno dal 2001 e fino
alla data del licenziamento, risalente al 2007; ha rilevato come la condotta
datoriale, quanto alle ripetute offese sulla presunta omosessualità del
dirigente, avesse trovato conferma nelle deposizioni dei testimoni, sia dei
testi M. e B. , dipendenti della società rispettivamente fino a novembre 2002 e
settembre 2001, e sia dei testimoni (V. , M.B. ) addotti da parte datoriale,
oltre che nell?interrogatorio libero del sig. Z. ;
3. la Corte di merito ha escluso che la condotta posta in essere dal legale
rappresentante sig. R. fosse solo espressione di un clima scherzoso
nell?ambiente di lavoro, avendo al contrario rilevato che la condotta medesima,
in quanto ripetutamente posta in essere dal titolare della società nei confronti
di un dipendente che, sebbene avente qualifica dirigenziale, era comunque in una
condizione di inferiorità gerarchica (e, difatti, mai aveva reagito alle altrui
offese), esprimesse un atteggiamento di grave mancanza di rispetto e quindi di
lesione della personalità morale del lavoratore;
4. secondo la sentenza impugnata, il lavoratore aveva allegato il danno subito
("stato di ansia e di stress... pregiudizio alla vita di relazione, pregiudizio
alla dignità e professionalità, per la conoscenza nell?ambito aziendale") e
questo era stato provato per presunzioni; che, inoltre, era congruo il criterio
di liquidazione adottato dal giudice di primo grado e riferito alla retribuzione
per il periodo di sei mesi;
5. avverso tale sentenza il Pastificio R. s.p.a. ha proposto ricorso per
cassazione, affidato a due motivi, cui ha resistito con controricorso il sig. Z.
;
6. entrambe le parti hanno depositato memoria, ai sensi dell?art. 380 bis.1.
c.p.c..
Considerato che:
7. col primo motivo di ricorso la società datoriale ha censurato la sentenza, ai
sensi dell?art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e falsa applicazione
degli artt. 115, 116, 414, 420, 421 e 437 c.p.c., in relazione agli artt. 1218,
2087 e 2697 c.c.; nonché, ai sensi dell?art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per
omesso esame di fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di
discussione tra le parti, con riferimento alla condotta asseritamente
inadempiente del datore di lavoro;
8. ha sostenuto come la sentenza impugnata avesse accertato la responsabilità
datoriale sebbene non fossero stati provati, dal lavoratore onerato, gli episodi
descritti nel ricorso introduttivo di primo grado integranti la condotta
inadempiente; e come la medesima sentenza non avesse valutato il fatto, decisivo
e oggetto di discussione tra le parti, della mancata prova della condotta
inadempiente;
9. col secondo motivo di ricorso la società ha dedotto, ai sensi dell?art. 360
c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116, 414
e 420 c.p.c., in relazione agli artt. 1218, 2059, 2087 e 2697 c.c. e in
relazione agli artt. 2727 e 2729 c.c. e ancora in relazione all?art. 1226 c.c. e
art. 432 c.p.c.; nonché omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che
è stato oggetto di discussione tra le parti, con riferimento al danno
asseritamente sofferto dal sig. Z. , ai sensi dell?art. 360 c.p.c., comma 1, n.
5;
10. ha affermato come la Corte d?appello avesse riconosciuto un danno in re ipsa
in favore del sig. Z. , per il difetto di allegazioni e prove e per la mancanza
di qualsiasi accertamento sulla esistenza del danno, sulla gravità della lesione
e sulla serietà del pregiudizio; come, inoltre, avesse erroneamente ritenuto
integrata una prova presuntiva ed avesse erroneamente confermato la liquidazione
equitativa del danno ad opera del Tribunale pur in assenza di prova del danno
medesimo;
11. il primo motivo di ricorso presenta plurimi profili di inammissibilità;
12. la Corte d?appello ha riprodotto le allegazioni contenute nel ricorso
introduttivo di primo grado, ha dato atto di come gli specifici episodi ivi
descritti e collocati nel periodo dal 2003 al 2007 non fossero stati dimostrati
ma come, invece, fosse stata comprovata la protratta condotta offensiva di parte
datoriale, pure allegata dal lavoratore, e relativa alla presunta omosessualità
del sig. Z. , sistematicamente apostrofato col termine "finocchio";
13. la società ricorrente ha anzitutto omesso di trascrivere, almeno nelle parti
essenziali, il ricorso introduttivo di primo grado al fine di contrastare
l?affermazione della Corte d?appello sulla allegazione, ad opera del lavoratore,
della condotta offensiva ritenuta integrata; inoltre, la censura, nella parte in
cui denuncia la violazione di diverse norme di legge, risulta priva di adeguata
specificità; secondo l?indirizzo di questa Corte, il vizio di cui all?art. 360
c.p.c., comma 1, n. 3 va dedotto, a pena di inammissibilità, non solo con
l?indicazione delle norme di diritto che si assumono violate ma anche mediante
la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza
impugnata di cui si denuncia il contrasto con le norme regolatrici della
fattispecie e con l?interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di
legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una
valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti
consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare
il fondamento della denunziata violazione (Cass. n. 287 del 2016; Cass. n. 635
del 2015; Cass. n. 25419 del 2014; Cass. n. 16038 del 2013; Cass. n. 3010 del
2012);
14. di fatto, col motivo di ricorso in esame, la società ha criticato la
sentenza impugnata per non aver colto il carattere scherzoso degli epiteti con
cui il legale rappresentante era solito apostrofare il dipendente, in presenza
degli altri colleghi e in un clima cameratesco, nonché per avere, in modo
illogico e contraddittorio, letto la mancata reazione del sig. Z. in dette
circostanze come sopportazione di una offesa anziché come riflesso della
irrilevanza e inoffensività della condotta datoriale, senza neanche debitamente
considerare come il sig. Z. fosse rimasto a lavorare alle dipendenze della
società per circa dieci anni, arrivando a ricoprire una importante posizione
dirigenziale;
15. tali censure, poiché si risolvono, tutte, in una critica alla valutazione
del materiale probatorio e alla ricostruzione della fattispecie concreta di
violazione dell?art. 2087 c.c., così come operata dalla Corte d?appello, non
possono trovare ingresso in questa sede di legittimità; tali censure neanche si
conformano al modello legale di cui al nuovo testo dell?art. 360 c.p.c., comma
1, n. 5 applicabile ratione temporis (sentenza d?appello del 2014);
16. come compiutamente descritto dalle Sezioni Unite di questa Corte nella
sentenza n. 8053 del 2014, per effetto della novella, il sindacato di
legittimità sulla motivazione deve intendersi limitato al minimo costituzionale,
con la conseguenza che l?anomalia motivazionale denunciabile in sede di
legittimità è solo quella che si tramuta in violazione di legge
costituzionalmente rilevante e attiene all?esistenza della motivazione in sé,
come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le
risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di qualsiasi rilievo del
difetto di "sufficienza", nella "mancanza assoluta di motivi sotto l?aspetto
materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile
fra affermazioni inconciliabili", nella "motivazione perplessa ed obiettivamente
incomprensibile", laddove nel caso di specie è chiaramente percepibile il
percorso motivazionale adottato dal giudice d?appello;
17. inoltre, secondo l?orientamento espresso dalle Sezioni Unite, e dalle
successive pronunce conformi (cfr. Cass., 27325 del 2017; Cass., n. 9749 del
2016), l?omesso esame deve riguardare un fatto, inteso nella sua accezione
storico-fenomenica, principale (ossia costitutivo, impeditivo, estintivo o
modificativo del diritto azionato) o secondario (cioè dedotto in funzione
probatoria), la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti
processuali e che abbia carattere decisivo. Non solo quindi la censura non può
investire argomenti o profili giuridici, ma il riferimento al fatto secondario
non implica che possa denunciarsi, ai sensi dell?art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5,
anche l?omesso esame di determinati elementi probatori, il che rende
inammissibili tutti i rilievi che attengono, in sostanza, alla critica nella
ricostruzione del fatto come eseguita dalla Corte di merito attraverso la
valutazione del materiale probatorio raccolto;
18. neppure è fondata la censura di violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e
art. 2697 c.c. che presuppone, come più volte precisato da questa Corte (cfr.
Cass. n. 11892 del 2016; Cass. n. 25029 del 2015; Cass. n. 25216 del 2014), il
mancato rispetto delle regole di formazione della prova ed è rinvenibile nelle
ipotesi in cui il giudice utilizzi prove non acquisite in atti (art. 115 c.p.c.)
o valuti le prove secondo un criterio diverso da quello indicato dall?art. 116
c.p.c., cioè una prova legale secondo prudente apprezzamento o un elemento di
prova liberamente valutabile come prova legale, oppure inverta gli oneri di
prova; nessuna di queste situazioni è rappresentata nel motivo di ricorso in
esame ove è unicamente dedotto che il giudice ha male esercitato il suo prudente
apprezzamento della prova;
19. considerazioni analoghe possono ripetersi quanto al secondo motivo di
ricorso avendo la Corte di merito, una volta ricostruita la condotta
inadempiente di parte datoriale, ritenuto il danno non patrimoniale provato in
via presuntiva;
20. questa Corte (Cass. n. 11269 del 2018; n. 7471 del 2012) ha più volte
statuito come il danno non patrimoniale, anche nel caso di lesione di diritti
inviolabili, non possa mai ritenersi "in re ipsa", ma vada debitamente allegato
e provato da chi lo invoca, anche attraverso il ricorso a presunzioni semplici;
21. le Sezioni Unite, nella sentenza n. 26972 del 2008, hanno affermato come il
danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti inviolabili della
persona, come tali costituzionalmente garantiti, è risarcibile - sulla base di
una interpretazione costituzionalmente orientata dell?art. 2059 c.c. - anche
quando non sussiste un fatto-reato, né ricorre alcuna delle altre ipotesi in cui
la legge consente espressamente il ristoro dei pregiudizi non patrimoniali, a
tre condizioni: (a) che l?interesse leso - e non il pregiudizio sofferto - abbia
rilevanza costituzionale; (b) che la lesione dell?interesse sia grave, nel senso
che l?offesa superi una soglia minima di tollerabilità; (c) che il danno non sia
futile, vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi, ovvero nella
lesione di diritti del tutto immaginari, come quello alla qualità della vita od
alla felicità;
22. nel caso di specie, la Corte di merito ha desunto il danno non patrimoniale
subito dal lavoratore dagli elementi probatori raccolti sul contenuto delle
offese, sulla reiterazione, sulle modalità e contesti in cui le stesse venivano
arrecate, sulla difficoltà di reazione per essere il destinatario lavoratore
subordinato; ha ritenuto che le offese, ripetute nel tempo, avessero arrecato,
tra l?altro, "concreto e grave pregiudizio alla dignità del lavoratore nel luogo
di lavoro, al suo onore e alla sua reputazione, per il fatto che gli epiteti
spregiativi erano ripetuti alla presenza dei colleghi e in situazioni nelle
quali il destinatario non era in condizioni di reagire";
23. la sentenza d?appello ha pronunciato in modo coerente alla giurisprudenza di
legittimità che reputa veicolato dall?art. 2087 c.c. l?obbligo di tutela, nel
contratto di lavoro, di interessi non patrimoniali presidiati da diritti
inviolabili della persona, come appunto la salute e la personalità morale, con
conseguente obbligo di risarcimento del danno non patrimoniale ove
l?inadempimento datoriale abbia provocato la lesione dei medesimi (per tutte cfr.
Cass., S.U., n. 26972 del 2008);
24. questa Corte ha anche precisato come il danno recato alla reputazione, da
inquadrare nell?ambito della categoria del danno non patrimoniale di cui
all?art. 2059 c.c., debba essere inteso in termini unitari, senza distinguere
tra "reputazione personale" e "reputazione professionale", non concepibili alla
stregua di beni diversi e pertanto non suscettibili di distinte domande
risarcitorie, trovando la tutela di tale diritto - a prescindere dall?entità e
dall?intensità dell?aggressione o dal differente sviluppo del percorso lesivo -
il proprio fondamento nell?art. 2 Cost. e, in particolare, nel rilievo che esso
attribuisce alla dignità della persona in quanto tale, (Cass. n. 18174 del
2014);
25. sulla stessa linea si pongono le pronunce che ravvisano la risarcibilità del
danno non patrimoniale in caso, ad esempio, di licenziamento ingiurioso, tale
per la forma o per le modalità del suo esercizio e per le conseguenze morali e
sociali che ne derivano, da risultare lesivo della dignità e dell?onore del
lavoratore licenziato (Cass. n. 23686 del 2015; n. 15496 del 2008);
26. infondata è la dedotta violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c. avendo questa
Corte (Cass. n. 15737 del 2003; 722 del 2007; Cass. n. 8023 del 2009) più volte
statuito come le presunzioni semplici costituiscono una prova completa alla
quale il giudice di merito può attribuire rilevanza, anche in via esclusiva, ai
fini della formazione del proprio convincimento, nell?esercizio del potere
discrezionale, istituzionalmente demandatogli, di individuare le fonti di prova,
controllarne l?attendibilità e la concludenza e, infine, scegliere, fra gli
elementi probatori sottoposti al suo esame, quelli ritenuti più idonei a
dimostrare i fatti costitutivi della domanda o dell?eccezione. Spetta pertanto
al giudice di merito valutare l?opportunità di fare ricorso alle presunzioni,
individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e
valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che,
ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità, dovendosi
tuttavia rilevare che la censura per vizio di motivazione in ordine all?utilizzo
o meno del ragionamento presuntivo non può limitarsi ad affermare un
convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve fare
emergere l?assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio,
restando peraltro escluso che la sola mancata valutazione di un elemento
indiziario possa dare luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo; le
censure della società appellante risultano inammissibilmente volte a
contrapporre un risultato interpretativo diverso rispetto a quello adottato
dalla Corte d?appello;
27. il rigetto delle censure sulla mancata prova del danno porta a ritenere
infondato il rilievo sul non corretto uso della equità integrativa di cui
all?art. 1226 c.c. e art. 432 c.p.c.;
28. per le considerazioni svolte il ricorso deve essere respinto;
29. da tale statuizione deriva la condanna di parte ricorrente, secondo il
criterio di soccombenza, alla rifusione delle spese di lite, liquidate come in
dispositivo;
30. si dà atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. 30 maggio
2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n.
228, art. 1, comma 17.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che
liquida in Euro 5.000,00 per compensi professionali, in Euro 200,00 per esborsi,
oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto
dalla L. 24 dicembre 2012 n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza
dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell?ulteriore
importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a
norma del comma 1 bis del medesimo art. 13.